Il programma SETI (Search for Extra-Terrestrial Intelligence) è attualmente l’unico programma scientifico di ricerca di possibili civiltà extraterrestri. Esso viene condotto ormai da 54 anni in vari paesi del mondo, essenzialmente cercando possibili segnali radio artificiali (e, da qualche anno, anche ottici). L’Italia è da sempre in prima linea in questa ricerca, fin dal suo primo concepimento nel 1959 ad opera dei fisici Philip Morrison, statunitense, e Giuseppe Cocconi, appunto italiano (di Como). Oggi l’Italia è il secondo paese al mondo dopo gli Usa per numero di ricercatori attivi e dal 2012 ha anche assunto, con Claudio Maccone, la presidenza del SETI Permanent Committee della International Academy of Astronautics. Ne parliamo con l’ingegner Stelio Montebugnoli, storico responsabile del SETI Italia.
Come ha cominciato a interessarsi al SETI?
Sono stato per 36 anni il responsabile del radiotelescopio Croce del Nord e della Stazione Radioastronomica di Medicina dell’Istituto di Radioastronomia di Bologna (prima CNR e poi, dal 2005, INAF). Nel 1990 partecipai a uno dei primi congressi di bioastronomia in Francia (Val Cenis), presentando le potenzialità della Croce del Nord per il SETI e introducendo in tal modo ufficialmente questo programma nel nostro paese.
Quali sono attualmente le basi scientifiche che fanno pensare che la vita possa esistere anche fuori dalla Terra?
Negli ultimi anni si sono scoperti moltissimi pianeti extrasolari (ormai circa 1800 sicuri e diverse altre migliaia probabili), alcuni dei quali simili alla nostra Terra. Inoltre è cresciuta enormemente anche la nostra comprensione dei meccanismi della loro formazione, per cui oggi sappiamo che si tratta di un fenomeno comunissimo, che accompagna normalmente la formazione delle stelle. Considerando poi che gli elementi chimici che sono alla base della vita sembrano essere relativamente diffusi nella nostra galassia, che a sua volta è solo una degli oltre 100 miliardi di galassie che popolano l’universo visibile, si può dedurre che la possibilità di esistenza di altre forme di vita sia veramente reale anche se probabilmente non ci incontreremo mai per le enormi distanze che ci separano.
Cosa fate a Medicina?
La stazione radioastronomica di Medicina è formata da due radiotelescopi: la grande Croce del Nord, lunga oltre 600 metri, e la parabola da 32 metri, appartenente alla rete europea VLBI (Very Long Baseline Interferometry). La probabilità di ottenere risultati dal programma SETI è molto bassa, date le grandi difficoltà tecniche, per cui il programma deve costare il meno possibile, sia in termini di fondi che di tempo di utilizzo dell’antenna. Per questo verso la seconda metà degli anni Novanta a Medicina abbiamo installato il sistema Serendip IV dell’Università di Berkeley che offre la possibilità di operare in parallelo alle osservazioni in corso senza perturbarle, in “piggy back”, come dicono gli americani, cioè rianalizzando con un apposito software i dati acquisiti attraverso la normale attività di ricerca radioastronomica. In questo modo si osserva per 24 ore al giorno per tutto l’anno senza richiedere costoso tempo antenna dedicato. A Medicina si è osservato con questa modalità per oltre 10 anni, raccogliendo una grande quantità di dati e anche molti segnali “sospetti”, che però finora non sono mai stati riconfermati da successive osservazioni.
E nel resto del mondo?
Il programma SETI più importante è oggi quello condotto (sempre in “piggy back”) presso il grande radiotelescopio di 300 metri di diametro di Arecibo (Portorico) dall’Università di Berkeley in collaborazione con il SETI Institute californiano. Quest’ultimo, insieme al RAL (Radio Astronomy Laboratory) dell’Università di Berkeley, ha poi anche costruito un interferometro costituito al momento da circa 45 antenne paraboliche di 6 metri l’una, l’ATA (Allen Telescope Array, in onore di Paul Allen che ha finanziato la costruzione con parecchie decine di milioni di dollari). La versione finale dell’ATA dovrebbe essere formata da oltre 300 antenne. Ad Arecibo vengono testati i più grandi spettrometri oggi esistenti per questo programma. In giro per il mondo vengono implementate osservazioni diciamo “minori”, simili a quelle svolte da noi a Medicina, per esempio in Argentina e in Australia. Per chi vuole, è anche possibile partecipare direttamente alla ricerca attraverso il sito del SETI@home, da cui si possono scaricare gratuitamente pacchetti di dati provenienti da Arecibo e un apposito software per analizzarli in automatico.
Quali sono le prospettive future?
Il futuro del SETI è strettamente legato ai nuovi mega-radiotelescopi internazionali SKA (Square Kilometre Array), ovvero strumenti costituiti da un gran numero di piccole antenne connesse tra loro da potenti computer, che si comportano come un’unica antenna di dimensioni enormi, ma senza i problemi, praticamente ingestibili, che darebbe un’unica antenna compatta di quelle dimensioni. Attualmente ce ne sono due in corso di costruzione, uno in Sud Africa e l’altro in Australia, che verranno poi integrati per via informatica, formando un unico sistema “virtuale” avente praticamente le stesse dimensioni della Terra. Le caratteristiche principali che caratterizzano questi nuovi strumenti sono la grande area di raccolta (che determina un’elevatissima sensibilità) e la possibilità di avere migliaia di pixel (fasci d’antenna) in grado di osservare contemporaneamente in altrettante porzioni di cielo. In questo modo si potranno coprire ampie zone di cielo con altissima sensibilità e in tempi molto brevi, e quindi con la possibilità di confermare immediatamente ogni segnale eventualmente ricevuto. Va inoltre detto che da qualche anno è anche iniziato un programma di SETI ottico, che ricerca segnali che potrebbero venire inviati nella banda della luce visibile attraverso potenti fasci laser: merita sottolineare che uno dei due programmi attualmente attivi nel mondo (l’altro è a Berkeley) si svolge in Italia, presso l’Osservatorio FOAM13 di Tradate (VA).
Questo sul versante delle apparecchiature; c’è anche un aspetto software?
Sì, l’altro fronte è proprio quello dello sviluppo dei software per l’analisi del segnale, che finora erano in grado di “vedere” solo segnali molto particolari (essenzialmente quelli formati da una portante radio), ma non, per esempio, di identificare le trasmissioni radio o tv di un altro pianeta. Su questo proprio qui a Medicina abbiamo fatto grandi progressi, implementando un nuovo sistema detto KLT (Karhunen-Loève Transform) al posto della classica Trasformata di Fourier e suoi derivati. Il limite di questo nuovo sistema è di non essere molto sensibile, per cui potrà esprimere tutte le sue potenzialità solo con l’avvento dei nuovi mega-radiotelescopi di cui ho detto prima, che determineranno quindi un enorme salto di qualità per questo tipo di ricerche.
Che conseguenze avrebbe a suo parere la scoperta di un segnale di origine extraterrestre?
Penso che l’impatto maggiore non sarebbe a livello scientifico, perché difficilmente saremmo in grado di inviare e ricevere informazioni dettagliate. Invece il sapere di non essere soli nell’immenso universo che ci circonda potrebbe modificare radicalmente la nostra concezione della vita a livello teologico e filosofico.