Tra le righe. Per capire dove sta andando la politica scolastica, in questo periodo, bisogna leggere tra le righe, evidenziando ora il passaggio apparentemente secondario di un testo normativo oppure spulciando tra i resoconti di qualche riunione ministeriale oppure, ancora, captando informazioni dalla smentita di fonte ministeriale di una qualche notizia riguardante la scuola apparsa sui giornali.
Tanto per esemplificare, nell’incontro del 22 novembre con i sindacati si è fatto riferimento (la Cgil Scuola per criticarla; il ministro Carrozza per smentire gli allarmismi della Cgil) alla sperimentazione della riduzione di un anno nei licei. Se ne è per caso fatto oggetto di una riflessione ampia, tale da coinvolgere le scuola e chi in essa opera? Non pare. Eppure la questione ha una portata epocale, da qualunque parte la si voglia intendere. Ebbene, in conformità a un decreto ministeriale, sei scuole superiori in Italia (tre statali e tre paritarie) a decorrere dall’anno scolastico 2014-15, e per un quadriennio, sono autorizzate ad attivare un progetto di innovazione metodologico-didattica che metterebbe gli studenti in uscita dai percorsi liceali a 18 anni alla pari dei loro coetanei europei. Si sta sperimentando il futuro e il passato: quella riduzione del ciclo liceale a quattro anni già ipotizzata e subito abbandonata ai tempi della riforma Moratti-Bertagna. Ma non se ne conosce granché e tutto passa in sordina.
L’incontro con i sindacati è servito al ministro Carrozza anche per informare che la legge 128/2013 sull’istruzione entra già nella fase attuativa. Ma il testo durante i lavori delle commissioni è stato modificato con l’accoglimento di emendamenti di vario genere e varia provenienza. Non è più quello che si conosceva al suo ingresso nelle aule parlamentari. Occorre rileggerlo con attenzione.
Tra le novità (Potenziamento dell’offerta formativa, art. 5, comma 4 bis), la seguente: l’amministrazione scolastica può promuovere, in collaborazione con le regioni, progetti della durata di tre mesi, prorogabili a otto, che prevedono attività di carattere straordinario, anche ai fini del contrasto della dispersione scolastica. I fondi sono delle regioni, ma il personale docente e amministrativo è quello delle graduatorie provinciali o delle graduatorie di istituto. Conclusione, e qui viene il bello, “al suddetto personale è riconosciuta la valutazione del servizio ai soli fini dell’attribuzione del punteggio nelle graduatorie ad esaurimento… nonché nelle graduatorie d’istituto”. In pratica, una regione fa un progetto, trova i soldi, assume personale e questo si vede riconosciuto il servizio in termini di punteggio. Non è poco: tanto per fare il quadro, le graduatorie ad esaurimento sono chiuse, ma ogni tanto si riaprono per l’aggiornamento del punteggio degli iscritti, e una norma come questa fa comodo.
Inoltre, se l’acquisizione di un credito di cui valersi nelle graduatorie (provinciali o di istituto) è un criterio utile al riconoscimento di un servizio prestato in una attività straordinaria, perché non estenderlo o intrecciarlo in qualche modo all’attività di formazione “obbligatoria” cui i docenti dovranno sottoporsi, sulla base della citata legge sull’istruzione, per migliorare il rendimento della didattica? Se formazione obbligatoria deve essere, perché non renderla libera (il docente si aggiorna dove vuole e come vuole per un certo numero di ore certificabili) e soggetta ad un bonus nei termini di un credito valido per le graduatorie (in questo caso magari solo quelle interne)?
Accanto alla formazione in servizio c’è il filone martoriato della formazione in itinere. Anche in questo caso si prospettano novità, ma sottotraccia. Una modifica del decreto 249/2010 sarebbe all’esame del Consiglio universitario nazionale (Cun) e del Consiglio nazionale degli studenti universitari (Cnsu). Si parla di una estensione dei Pas (Percorsi abilitanti speciali) al 2015-16 e di nuovi Tfa ordinari, le cui prove di ammissione (quando ci saranno?) dovrebbero dare vita ad un’unica graduatoria nazionale. Anche qui, tuttavia, molta sordina.
Insomma, l’impressione è che il sistema si stia in qualche caso piegando alle necessità che provengono dalle emergenze formative (disagio, disabilità, integrazione), ma che lo faccia in disordine, senza un piano, senza una logica.
Il terreno sul quale si giocano importanti partite che riguardano l’immediato futuro è comunque la disponibilità di scuole e docenti a mettersi in discussione.
È quanto sta avvenendo in riferimento alle “nuove” Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo d’istruzione. Il documento di accompagnamento (agosto 2013) è piuttosto perentorio: “Le nuove Indicazioni presentano un modello di scuola impegnativo, che costituisce un punto di riferimento obbligatorio, pur nel rispetto della libera iniziativa didattica degli insegnanti e nell’esercizio dell’autonomia progettuale delle singole scuole”. Da qui una serie di azioni di informazione, formazione, ricerca, monitoraggio e documentazione che dovrebbero investire a cascata le scuole entro il 2014.
Una fase che, come l’incongruente citazione dimostra, può avere due facce: quella di un documento obbligatorio da calare sulle teste dei docenti; quella di un’occasione di riflessione che parte dalla libera iniziativa di chi nella scuola opera. Come già abbiamo osservato, obbligatorietà e libertà si conciliano facilmente nei documenti ministeriali. Non così nella realtà che è fatta di persone pensanti e responsabilità da assumere. Sempre che il docente e la scuola non siano considerati un mondo a parte, dove, tra le righe, questa regola non vale.