Da quale punto di osservazione guardare la sperimentazione del liceo quadriennale – con uscita dalla scuola a 18 anni – autorizzata dal ministro Carrozza, e l’intero dibattito che ne è seguito, di cui ilsussidiario.net è stato promotore? Dal centro della condizione antropologica, delle necessità, dei bisogni e delle domande dei ragazzi o dal lato dei docenti, dei sindacati, dell’amministrazione, della politica?
Se ci poniamo dal punto di vista dei ragazzi, il dato clamoroso – che, tuttavia, a noi assuefatti appare normale come l’aria che respiriamo – è che non c’è più, se mai c’è stata, una corrispondenza tra la concreta antropologia dei ragazzi di oggi, da una parte, e, dall’altra, l’organizzazione curriculare del sistema scolastico e l’ambiente sociale e culturale che la rendevano legittima e sopportabile.
È un problema mondiale, che tocca tutti i sistemi di istruzione che hanno radici comuni nel modello europeo, nato al punto di intersezione della sequenza storica ratio studiorum .. illuminismo .. Hegel .. Napoleone, dello Stato nazionale e della rivoluzione industriale. Non è necessaria una specializzazione in psicologia dell’età evolutiva, basta osservare figli o nipoti per rendersi conto che l’infanzia si va accorciando, che l’adolescenza parte a 11/12 anni, che a 16 anni i ragazzi entrano già in quella giovinezza lunga, il cui termine finale i sociologi fissano oggi ai 34 anni.
Tra gli ordinamenti, da una parte, e le biografie individuali, il mercato del lavoro, il mondo della produzione, dall’altra, si sta allargando una faglia che inghiotte ogni anno quasi 200mila ragazzi, mentre i tempi di ingresso nella vita reale professionale si sono allungati a 11 anni dal diploma superiore. I danni collaterali di questa non-corrispondenza sono enormi: la scuola è diventata un ambiente iatrogeno, genera le malattie che dovrebbe prevenire o curare. Non importa patologie sociali dall’esterno, le produce in proprio. Quando i ragazzi a scuola “stanno bene”, non significa che sentano il tempo di apprendimento come tempo della propria vita, come luogo della costruzione di sé; più semplicemente, socializzano con i loro pari.
Pertanto, chiunque si trovi a pensare, progettare, governare il sistema scolastico deve porsi il problema di costruire la corrispondenza di curriculum tra classe scolastica e classe di età. La prima conseguenza è che non ha senso discutere/sperimentare solo relativamente alla durata del quinquennio superiore senza coinvolgere tutto l’ordinamento, in particolare la scuola media, di cui ricorrono il cinquantenario e i relativi problematici bilanci, oggetto di un altro dibattito su queste stesse pagine. Rinchiusa la sperimentazione nei quattro anni di liceo, è difficile sfuggire ad alcune obiezioni, che contestano con buoni argomenti l’eterno ritorno nonché l’opacità delle sperimentazioni, la perdita secca di un anno di istruzione superiore, il richiamo solo parzialmente pertinente all’Europa.
Dunque, è l’intero segmento superiore che va riorganizzato, perché è la fine del ciclo 03-10 anni il punto di partenza di un nuovo ciclo esistenziale. Luigi Berlinguer aveva risolto la questione con la proposta del 7+5 (legge 30 dell’8 marzo 2000). La scuola di base si allungava di due anni, saltava la scuola media, il ciclo superiore recuperava l’ultimo anno di scuola media, conservava i cinque anni, ma si usciva a 18 anni. Generava, nell’immediato, l’inconveniente dell’onda anomala: sul primo anno delle nuove superiori si sarebbero concentrati – ma solo per un anno – i quattordicenni che uscivano dalla terza media e i tredicenni che uscivano dal nuovo ciclo di base. L’onda avrebbe proseguito la sua corsa fino alla fine dei cinque anni. I problemi di ristrutturazione interna e di armonizzazione reciproca dei curricoli erano evidenti. Questo fu l’argomento principale usato dagli oppositori al governo e all’opposizione.
In realtà, non erano mossi da interessi pedagogico-didattici, bensì da quello delle cattedre che si perdevano e quello della crisi di ruolo che investiva gli insegnanti provenienti dalla scuola media, essendo i due terzi “degradati” verso il ciclo di base, un terzo scaraventati sul livello superiore. Il centro-destra cavalcò la protesta, ma fu il fuoco amico (?!) a far cadere il ministro e D’Alema. I sindacati, infatti, erano tutti “uniti nella lotta” per la difesa dei posti di lavoro. Che la scuola media fosse − e sia − divenuta il buco nero del sistema e la base di innesco del processo di disorientamento e di dispersione, che raggiunge l’acme nei primi anni delle superiori, a loro non interessava e continua ostinatamente a non interessare.
Beninteso, l’uscita a 18 anni non è un dogma. Ma quello della corrispondenza tra curriculum e biografia individuale sì! Si può anche continuare a uscire dalla scuola a 19 anni. Usare quattro marce o cinque? Meglio il cambio automatico, che fa corrispondere la meccanica alla dinamica del motore. Fuor di metafora: una meccanica degli ordinamenti che sia in asse con la dinamica della crescita personale. A condizione che l’organizzazione curriculare tenga conto dell’osservazione di buon senso di san Paolo nella Prima lettera ai Corinzi (1 Corinzi 13): “Quando ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino; ma quando sono diventato uomo, ho smesso le cose da bambino”. Viceversa, il nostro sistema di istruzione tratta i già-adolescenti come ancora-bambini fino ai 14 anni e tratta i già-giovani come ancora-adolescenti fino a 19 anni.
In realtà, decenni di elaborazioni, di esperienze nazionali e internazionali e, soprattutto, di politiche confermano che il principio di riorganizzazione e di ripensamento degli ordinamenti è un curriculum fondato sulle competenze-chiave, sui piani di studio personalizzati, sul laboratorium invece che sull’auditorium, sull’organizzazione dell’edilizia scolastica e degli spazi fisici, che non costringa nei banchi degli undicenni i giovani di 19 anni.
La sperimentazione della Carrozza ha il merito di riaprire il discorso su tutto ciò. Nulla di più. Perché, ad un occhio smaliziato la sperimentazione autorizzata potrebbe anche apparire come un ennesimo rinvio e una fuga per i campi, vista la mancanza di volontà politica dei governi passati e di questo governo di camminare sulla strada maestra delle riforme volte a mettere in asse il sistema di istruzione con le biografie individuali dei ragazzi. Tuttavia sarebbe ingeneroso imputare alla sola Carrozza un blocco delle riforme che invece è l’effetto del reciproco assedio di forze politiche, che, governando insieme, impediscono, ciascuna all’altra, di “ferire” con riforme radicali il proprio elettorato.
Perciò, limitiamoci a prendere sul serio il tentativo, affinché la sperimentazione sia rigorosa, pubblicamente trasparente e, soprattutto, se ne tragga un bilancio coram omnibus. La politica, i sindacati, l’amministrazione scolastica hanno coste frastagliate e dispongono di porti delle nebbie dove nel corso dei decenni molte navi hanno attraccato e più nessuna ha ripreso il largo. La discussione che la sperimentazione ha provocato può contribuire a illuminare la “metafisica occulta” e trasversale della cultura politica conservatrice, che è egemone nella scuola, che si esprime in un assioma elementare: bisogna cambiare i ragazzi, non il sistema; i ragazzi si devono adattare alle domande vincolanti del sistema. Contano le cattedre, i posti di lavoro, gli orari, tanto a settimana, il tutto rigidamente immobilizzato da leggi e contratti-leggi. Questa la costante, i ragazzi sono la variabile. Peggio per loro!
Ed è il peggio che, appunto, sta già accadendo. C’è da scommettere che nessuna forza politica e sindacale si riconosca in questo giudizio. Eppure, vent’anni di seconda Repubblica confermano che solo quel presupposto è in grado spiegare razionalmente l’immobilità delle politiche e il declino del sistema di istruzione. E l’eterno movimento delle parole dei dibattiti, dei talk-show, dei programmi elettorali, dei disegni di legge e dei decreti legislativi? Direbbe sempre san Paolo: “un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna”. Null’altro.