Quel che segue è il racconto di un incontro avvenuto in diverse fasi tra chi scrive, gallerista d’arte contemporanea, e un’opera d’arte sacra realizzata in tempi recentissimi. Si tratta del mosaico della Fraternità san Carlo di Roma creato da Marko Ivan Rupnik, coadiuvato da un gruppo di artisti del centro Aletti di Roma. L’autore è un mosaicista di estrema bravura ma anche teologo e ricercatore, quindi figura di riferimento nel creare immagini che abbiano una precisa fedeltà al Magistero.
Un’analisi competente della tecnica da parte di un esperto di opere musive rileverebbe probabilmente con più raffinatezza di me le infinite e bellissime modulazioni cromatiche, morfologiche, dimensionali e materiche dei frammenti e il loro incastro. Sicuramente l’elenco e il prestigio delle opere realizzate da questo gruppo di artisti-teologi testimonia di una capacità di espressione realistica e simbolica all’altezza della più esigente committenza ecclesiastica.
Il primo impatto con questo lavoro risale a una serie di immagini fotografiche ricevute per posta elettronica più di un anno fa, seguite da una visita alla Fraternità San Carlo con l’esperienza diretta e tangibile dell’opera nei vari momenti liturgici della giornata. Infine, la ricezione di un prezioso volume, La trasfigurazione della materia (Marietti 2011, pp. 115), con scritti di Massimo Camisasca, Jonah Lynch (superiore e vicerettore della Fraternità san Carlo) e dello stesso artista, con un corredo di immagini del fotografo Stefano Ciol, mi ha consentito una comprensione piena sia delle intenzioni dei committenti, sia dei riferimenti teologici dell’autore nel costruire l’impianto scenico.
Questo mio percorso, cominciato con un certo scetticismo derivato da considerazioni formali (e dal confronto con il repertorio delle attuali avanguardie) è poi pervenuto a un giudizio più consapevole e positivo. Di pari passo si è evoluta la mia conoscenza del pensiero di Luigi Giussani sulla bellezza.
Una disamina completa dell’opera richiederebbe molte pagine ed è già disponibile nel volume citato. Mi limiterò a dire che si tratta di una grande parete a mosaico realizzata sullo sfondo della cappella della Fraternità e divisa in tre distinti settori: uno ampio, centrale, che raffigura episodi fondamentali dell’Antico e del Nuovo Testamento. Segnatamente, da sinistra a destra, Abramo e Sara ricevono la visita di tre personaggi celesti a Mamre; Maria abbraccia il rotolo di pergamena della Parola che le porge l’Arcangelo Gabriele; Gesù incontra gli apostoli Andrea e Giovanni presso il Giordano. Il settore di sinistra rappresenta due giovani deceduti in un tragico incidente immaginati al fianco di don Giussani. Sono le loro famiglie ad aver donato l’opera al seminario. Infine, all’altra estremità, sono raffigurati san Carlo Borromeo e il beato Giovanni Paolo II, le grandi figure della Chiesa più vicine alla Fraternità. A queste vanno aggiunte altre immagini reali ed allegoriche, e bisognerebbe comunque tener conto della lettura assai più complessa da dare a tutta l’opera nel suo insieme.
Le mie considerazioni preliminari e immediate si sono appuntate su due aspetti evidenti: la lavorazione assolutamente magistrale del mosaico, di una ricchezza inventiva e tecnica davvero prodigiosa, contrapposta al disegno che non sembra tener conto dell’evoluzione dell’arte contemporanea e di tutti quegli stimoli di cui essa si nutre provenienti dal mondo di oggi.
La manifesta riluttanza dell’opera a richiamare l’immaginario contemporaneo o a rifarsi con studiate citazioni stilistiche a un momento dell’arte del passato e, piuttosto, la volontà di illustrare il racconto con la più onesta semplicità, mi lasciava perplesso e mi ha portato a dibatterne anche vivacemente. D’altra parte una simile prudenza non rispecchia l’atteggiamento di tutta la Chiesa che in alcuni esempi (che a me paiono poco riusciti ma di cui occorre avere considerazione) come il Duomo di Reggio Emilia o la chiesa del Santo Volto di Gesù a Roma si adegua alla più dirompenti espressioni del contemporaneo.
Come scrive giustamente Camisasca, però, questa particolare opera è nata per aiutare la preghiera, e la sua presenza fisica, quando ci si trova all’interno della cappella, è di fatto coinvolgente. Innanzi tutto è riferita con sensibilità al contesto architettonico di sobria e austera qualità che la ospita, un fabbricato degli anni sessanta inserito in un bel parco alle periferia di Roma, e poi è “parlante” per il modo in cui le tarsie reagiscono alla luce nei vari momenti della giornata, sottolineando con imprevedibili chiaroscuri i vari momenti del racconto biblico. Allora ci si rende conto della straordinaria brillantezza di ogni dettaglio e di un disegno in cui ciò che pareva semplicità eccessiva si rivela elegante e discreto contrappunto alla Parola. La liturgia, accompagnata da un canto perfettamente unisono, determina in quell’ambiente momenti di rara e profonda meditazione e il senso di sovrana unitaria bellezza che ne scaturisce è una guida invitante a una più alta compenetrazione con il Mistero. Insomma, l’esperienza diretta di un’opera d’arte, con una coscienza più avvertita di ciò che deve suscitare, cambia la percezione che se ne ha, nel bene o nel male.
Questa scoperta apre a molte domande sull’estetica, sia nel mondo ecclesiastico, laddove non è strettamente destinata al clero, diversamente dal caso in esame, sia in tutte quelle manifestazioni artistiche create da chi mette al principio del proprio agire un supremo pensiero religioso. In qualche modo forma artistica e “splendore del vero” sono legati, talora in maniera nascosta, altre volte evidente, e questa piccola esperienza ci dice quanto sia importante calarsi nel vivo delle opere e delle persone che così le hanno volute per intuire il nesso che congiunge l’anelito umano e la Divinità per mezzo delle stupefacenti invenzioni dell’arte.