Da tempo, studiosi autorevoli di linguistica e didattica dell’italiano chiedono che si rafforzi l’insegnamento della grammatica nelle scuole. Negli anni recenti, questo appello sembra aver raccolto l’attenzione di un numero sempre maggiore di insegnanti, esperti, commentatori. Nelle “linee guida” della programmazione didattica, in sede ministeriale, si invita a promuovere le attività di riflessione metalinguistica, nelle quali la componente grammaticale viene opportunamente collocata.
Non è un ritorno all’antico. Piuttosto, è un recupero di una dimensione recentemente trascurata. Perché si è abbandonata la grammatica? Alcuni tuttora sostengono che non serva a nulla insegnare storielline come quella del soggetto “che fa l’azione”. Hanno ragione: non è così che si può descrivere un soggetto sintattico. Purtroppo, invece di far chiarezza su questa nozione, si è preferito buttar via l’insegnamento grammaticale.
A dire il vero, certe formule (p.es. “la frase è l’espressione di un pensiero compiuto”) facevano vergognare gli insegnanti anche ai tempi del Re e della Buonanima. Sembravano formule da attribuire alla tradizione della grammatica razionale, ma erano, piuttosto, frasettine fuori contesto, inserite nei manuali a uso scolastico come rimedi per risparmiare a insegnanti e scolari sforzi “cognitivi” eccessivi. Proprio quelle frasi sostituivano un discorso rigoroso e complesso (cioè una teoria), che aspirava a dare un fondamento logico-filosofico alla grammatica. Era, questo, un tentativo rivolto quasi esclusivamente alla struttura delle espressioni di concetti e giudizi. In questa prospettiva, i concetti sono intesi come termini mentali che si manifestano nei sostantivi; a loro volta, i giudizi sono considerati come la connessione fra un predicato e un argomento: si dice “predicato” la caratteristica che viene affermata o negata a proposito di una sostanza (“hypokeimenon”, cioè “sub-iectum”).
Questa tradizione ha stabilito un parallelismo tra il predicato e il verbo finito e ha chiamato “soggetto” il sostantivo (o il pronome) che si connette a un verbo finito e costituisce un enunciato. Si sono tralasciate varie altre strutture, come le frasi che non esprimono giudizi: ancora oggi, del resto, nelle grammatiche si dedica scarsa attenzione alle frasi interrogative e a quelle iussive. Eppure, nell’uso quotidiano sono assai frequenti. Queste frasi erano un tempo tralasciate perché “nihil enuntiant determinate” (“nulla affermano o negano con determinatezza”), come scrivevano in epoca moderna. È chiaro che la lingua era studiata in quanto strumento di manifestazione di concetti e giudizi. La grammatica era il risultato di una riflessione sulla struttura dell’ente logico. L’organizzazione della lingua era, per così dire, “piegata” all’organizzazione della logica minor, a sua volta basata su una logica maior (si veda il primo volume degli Elementi di filosofia di Sofia Vanni Rovighi).
La fondazione filosofica rispondeva all’esigenza di riconoscere l’unità del sapere umano. Per questa via, si tendeva a ricondurre la struttura delle lingue alla struttura degli enti di ragione (concetti e giudizi). E poiché la ragione umana è universale, la grammatica era una et eadem in omnibus linguis. Ne discendeva la convinzione che tutte le grammatiche si potessero presentare allo stesso modo di quella porzione di latino impiegata per descrivere le espressioni dei concetti e dei giudizi. Per l’esigenza di universalità, si tralasciavano molti fenomeni difficili da collocare nel quadro ristretto e riduzionista così delineato. Quel che non rientrava nella grammatica era patrimonio di un’altra disciplina, chiamata “retorica”. E i conti tornavano.
L’impianto della tradizione era ben ordinato, nella prassi scolastica contemporanea si è in parte demolito o, come piace oggi, “decostruito”. La retorica si è abbandonata e della grammatica si sono salvati, è vero, molti aspetti centrali per la riflessione sulla lingua. Tuttavia, si sono anche deformate e banalizzate varie affermazioni, un tempo chiare e profonde, in cui si poneva l’ipotesi di una struttura grammaticale universale. Per esempio, l’affermazione che la frase è “l’espressione di un senso compiuto” sembra nonsense: che cosa si intende per “senso compiuto”? Quando il “senso” può dirsi “compiuto”? Sono facili le ironie e i dileggi della tradizione. Ma nella tradizione si diceva ben altro: si diceva, piuttosto, che la congrua dictionum ordinatio era quella che manifestava un’analoga organizzazione del piano semantico. E questo si diceva all’interno di una riflessione sui nessi fra logica e grammatica: non si definivano le frasi, ma si individuavano quelle frasi che meritavano attenzione per la loro capacità di esprimere con chiarezza l’organizzazione dell’ente logico.
È ragionevole ritenere che l’impianto della grammatica tradizionale sia molto più complesso e serio di quello che traspare dalle formule in uso nella pubblicistica scolastica anche degli ultimi anni. Queste formule hanno fatto venire in uggia la grammatica, et pour cause. Eppure, basta poco per recuperare elementi ancor oggi validi di tale edificio, con le dovute integrazioni e “ristrutturazioni”. Nell’impegnativo programma di Noam Chomsky (leggetevi i libri di Andrea Moro) si possono cogliere molti elementi dell’impianto della grammatica razionale.
Merita interesse un’altra tradizione grammaticale, che forse è meno impegnata sul versante filosofico, ma è ben fondata nella tradizione della filologia classica. Essa pone il verbo al centro della frase e considera le altre parole alla stregua di elementi che saturano le valenze del verbo. In tale prospettiva, ha osservato uno studioso ungherese (Gerd Antos), la valenza è come una bomba a orologeria: è depositata nel lessico (sappiamo dal vocabolario come si comporta un verbo) e deflagra nella sintassi.
Il fenomeno della valenza ha le sue radici nel significato. In una frase, il verbo è vertice sintattico e tendenzialmente è anche vertice semantico: quest’ultimo corrisponde a un predicato che rappresenta lo schema di un evento (in senso generico, “ciò che può verificarsi” nella realtà: situazioni, processi o azioni di vario tipo).
In questa prospettiva, cominciamo a capire qualcosa su certe nozioni come “agente” e “paziente”. Si tratta di ruoli semantici: si possono quasi accostare a una “parte” da interpretare in una pièce di teatro. Tradizionalmente, si tende a riconoscere al soggetto della frase attiva il ruolo di “agente”, mentre l’oggetto diretto è “paziente”, ossia è concepito come “ciò su di cui ricade l’azione”; a sua volta, l’oggetto indiretto di un verbo come dare riceve il ruolo di “beneficiario”. Sono etichette che corrispondono a valenze tipiche di queste categorie sintattiche.
Avviene così che i verbi a due valenze (p.es. salutare) con un soggetto “agente” e un oggetto “paziente” siano annoverati nella categoria dei transitivi, così detti perché concepiscono un’azione come un percorso dall’origine, che risiede nell’agente, fino alla mèta, che è un oggetto “paziente” (patiens perché “subisce” l’effetto dell’azione; in una tradizione americana, quella di Leonard Bloomfield, si dice che l’oggetto esprime the goal, “la mèta”). Questo punto di vista fa corrispondere il soggetto all’agente. La struttura sintattica organizzata da questo punto di vista è detta “attiva”. Come è noto, la prospettiva può mutare e l’azione si può cogliere dal punto di vista del “paziente”: per rappresentare linguisticamente questa prospettiva si impiega tipicamente una struttura con il verbo nella diatesi passiva (Luigi è stato licenziato).
Tuttavia, non vi è una relazione biunivoca tra sintassi e semantica: segue che non posso definire il soggetto come “l’agente” o l’oggetto come “il paziente”. Vi è una tendenza, questo sì. Essa ha probabilmente una ragione statistica, ma anche un motivo psicologico: i verbi sono considerati parole che tipicamente significano azioni. Come conseguenza, i soggetti sono visti come tipici “agenti”, gli oggetti come tipici “pazienti”, anche se molti verbi non significano affatto azioni (dormire è un’azione?) e certi soggetti non sono agenti (il pallone ha rotto il vetro: chi compie l’azione? Il pallone, o il Luigi che lo ha gettato?).
La struttura “agente – azione – mèta / paziente”, appena considerata, è privilegiata nella descrizione grammaticale. In realtà, essa è solo una delle varie costruzioni fatte per esprimere schemi di evento della realtà. Nelle ricerche di cognitive linguistics se ne sono individuate diverse altre. Ne riprendo alcune dal manuale di René Dirven & Marjolijn Verspoor (Introduzione alla linguistica: un approccio cognitivo, Forlì 1999: 116-129). Ciascuna reca il nome dello schema di evento cui tipicamente si lega:
A) “esistenza”, che corrisponde a uno “stato” e mette in relazione un’entità con un modo di essere; lo schema trova corrispondenza nelle frasi nominali con la copula, ma anche in altre frasi in cui essere è verbo di esistenza (C’è del marcio in Danimarca);
B) “avvenimento”, che coinvolge un oggetto in un processo (La pentola bolle);
C) “esperienza”, che dà struttura linguistica a eventi sensoriali (vedere, udire) e mentali espressi da verbi come pensare, sapere, volere ecc. Si richiede un individuo nel ruolo di “sperimentatore” (Gigi vede una casa). Si osserverà che in lingue come il russo questo schema trova corrispondenza in frasi come Mne viden dom “vedo una casa”, dove il dativo mne “a me” corrisponde allo sperimentatore e dom “casa” ha il ruolo di oggetto cui si dirige l’esperienza;
D) “possesso” è uno schema che prevede, come primo partecipante, un “possessore”; vi sono diversi sottotipi, nei quali si incontra un possessore umano (Maria ha molti amici) oppure un oggetto (Il tavolo in salotto ha tre gambe: in questo caso il possesso è una metafora);
E) “movimento” è lo schema “origine – percorso – meta” (Il libro è caduto dalla mensola sul computer);
F) “trasferimento” è lo schema attivato con il verbo dare: un “agente” è primo partecipante; vi compaiono poi un “beneficiario” e un “paziente”.
Gran parte delle frasi che rappresentano questi schemi d’azione esclude la possibilità di una struttura con verbo al passivo; ecco due esempi con lo schema “possesso”: Molti amici sono avuti da Maria; Tre gambe sono avute da questo tavolo.
Si è ripresa questa proposta di classificazione per mettere in luce come lo schema “agente – azione – paziente” sia uno fra i molti possibili schemi di eventi riconosciuti nelle costruzioni più diffuse delle varie lingue. Nelle frasi si incontrano soggetti sintattici ai quali si attribuiscono svariati ruoli semantici oltre all’agente e al paziente. I ruoli sono decisi dall’evento comunicato nel testo.
Forse è opportuno liberare l’insegnamento della grammatica da certe pseudo-definizioni e dalle incrostazioni frutto di svogliatezza e di incuria, tuttora in voga nei manuali scolastici. L’avventura della grammatica è una scelta ragionevole per chi ritenga fondamentale guidare gli allievi nello sviluppo della capacità di fare astrazione e cogliere l’unità nella molteplice sua manifestazione. Oggi vi sono molti strumenti che aiutano gli insegnanti a recuperare un discorso antico e sempre nuovo sul fenomeno linguistico. Uno di questi è proprio La padronanza linguistica (Academia Universa Press, Milano 2011), una “grammatica discorsiva” di cui è autrice Daniela Notarbartolo: più che un manuale, è un libro che viene dall’esperienza e propone risposte a domande condivise da tanti docenti. Chi legge non ha voglia di “saltare-le-pagine-che-non-si-capiscono”. Tutto è chiaro, preciso, senza fronzoli. La scuola italiana deve riconoscenza all’autrice, che non accetta di alzare la bandiera bianca, non rinuncia a spiegare concordanza e reggenza e a mostrare perché sono nozioni utili. Soprattutto, non dimentica che nella didattica è meglio partire dai dati e poi ricavare per generalizzazione un concetto che si possa applicare a tanti altri casi simili a quelli osservati. Non è difficile, in fin dei conti: invece di spiegare che cosa sia il soggetto, basta mostrare tanti casi simili; e poi, invece di dire: “Beh, cari, questi sono i soggetti”, si guiderà gli allievi a riconoscere le caratteristiche condivise da quegli elementi che, proprio perché hanno quelle caratteristiche, sono chiamati “soggetti”. Basterebbe far rilevare che un soggetto concorda con il verbo e che tale concordanza indica un legame preferenziale, che pone il soggetto sul podio al di sopra dell’oggetto, eccetera eccetera. Chi voglia saperne di più, si legga “la” Notarbartolo (per metonimia: “il libro” di Daniela Notarbartolo).