Vi siete mai chiesti perché i corpi portati ad alta temperatura iniziano ad emettere luce? Le stelle, i metalli incandescenti, gli archi elettrici, sono solo alcuni esempi di questo fenomeno molto comune. La spiegazione va ricercata nella natura atomica della materia. Sono gli atomi, infatti, che opportunamente eccitati possono dar luogo a questo comportamento. Il meccanismo è piuttosto semplice e può essere facilmente spiegato sfruttando il modello atomico proposto da Bohr all’inizio del secolo scorso. Secondo questa visione semiclassica dell’atomo, gli elettroni si muovono attorno al nucleo atomico su orbite non radiative corrispondenti a diversi stadi d’energia. Quando un elettrone acquista sufficiente energia (ad esempio per riscaldamento), abbandona l’orbita su cui si trova per saltare su un’orbita ad energia maggiore.
In pratica compie una transizione fra due livelli energetici. È a questo punto che si verifica il fenomeno dell’emissione luminosa. Gli elettroni che hanno compiuto un “salto energetico”, infatti, non rimangono a lungo nello stato eccitato ma, dopo un breve intervallo di tempo, ricadono su un livello energetico più basso restituendo l’energia precedentemente acquistata sotto forma di un fotone (un quanto di luce) di energia pari al salto energetico compiuto. Questo processo viene denominato “emissione spontanea” o “decadimento radiativo” dell’atomo. È di questi giorni la notizia che un gruppo di ricercatori americani coordinati da Kater Murch dell’Università di Berkeley, confermando una previsione teorica formulata 27 anni fa dal fisico Crispin Gardiner, ha dimostrato che è possibile ridurre il tasso di decadimento radiativo sfruttando l’interazione con particolari fluttuazioni quantistiche del campo elettromagnetico note come stati di “luce spremuta” (squeezed states). Per comprendere di cosa si tratta occorre ricordare che le fluttuazioni quantistiche sono un riflesso del principio d’indeterminazione di Heisemberg e, più in generale, rappresentano una sorta di rumore di fondo il cui effetto principale è quello di limitare la precisione delle misure ottiche.
È tuttavia possibile migliorare questa situazione, senza violare il principio d’indeterminazione, confinando il rumore associato all’onda luminosa solo in una sua parte. Questo processo di confinamento del rumore in una componente dell’onda elettromagnetica prende il nome di “luce spremuta”. Nel 1986, il fisico Crispin Gardiner formulò l’ipotesi che la riduzione delle fluttuazioni quantistiche, causata dall’interazione con stati di luce spremuta, avrebbe avuto come conseguenza una consistente diminuzione del tasso di decadimento radiativo di un atomo. A causa delle enormi difficoltà sperimentali (derivanti soprattutto dal fatto di dover oprare su atomi singoli) non è stato tuttavia possibile fino ad oggi verificare sperimentalmente questa previsione teorica. Per riuscire in quest’impresa il gruppo di ricercatori americani ha dovuto ricorrere ad una sorta di sotterfugio: anziché utilizzare un atomo vero, ha operato su un atomo artificiale costituito da un circuito superconduttore accoppiato a una cavità a microonde.
In pratica, ha realizzato una macchina quantistica in grado di riprodurre il comportamento di un atomo con due livelli energetici. Utilizzando questo dispositivo Murch e colleghi hanno effettivamente potuto verificare che per effetto dell’accoppiamento con la luce spremuta, il tasso di decadimento radiativo dell’atomo artificiale si riduce della metà. Tutto ciò ha un’importante conseguenza: l’aumento del tempo di coerenza dell’atomo, ovvero l’aumento dell’intervallo di tempo durante il quale l’atomo rimane in un determinato stato energetico. Si tratta di un risultato estremamente significativo in quanto indica una possibile strada per realizzare “q-bit” (i mattoni elementari per il funzionamento del computer quantistico) più affidabili per il calcolo quantistico dal momento che è proprio l’instabilità dello stato del sistema uno dei limiti fondamentali per la codifica di informazioni in questo tipo di sistemi fisici.