Mimmo Calò è un normalissimo 44enne. E come tutte le persone normali, è sommerso dai problemi. Se poi si aggiunge il fatto di risiedere a Palermo, ecco che allora tutto si fa mille volte più complicato. Il posto di lavoro che sfuma perché il “padrone” è colluso con la malavita, l’acquisto involontario, ad un’asta, di un magazzino che faticosamente diverrà una sfincioneria, un figlio tanto agognato in arrivo nel momento forse più sbagliato (con annessa suocera invadente). Sono solo alcune delle peripezie tra cui Carlo Loforti, nel suo Appalermo, Appalermo! (Baldini&Castoldi, 2016) fa districare il protagonista del romanzo, un equilibrista sempre in bilico tra la prospettiva di migliorare la sua vita e il baratro del fallimento. Un integerrimo lavoratore, ostinato a non piegarsi alle richieste di pizzo di quella stessa mafia che già una volta, seppur indirettamente, lo aveva privato dello stipendio, che, però, schiacciato dai debiti, ora finisce per essere coinvolto in un affare ai limiti della legalità. Un concentrato di salacità e di sicilianità che conferisce a tutto il testo una patina di piacevolissima leggerezza, resa ancor più pienamente dagli spassosi intermezzi di dialetto palermitano.
Una patina che, tra le sue pieghe, racchiude ben più che il proposito di suscitare una risata, come dimostrano, oltre al protagonista, i personaggi di contorno. Uno su tutti: Franco, la macchietta che sa esprimersi solo in inglese o in siciliano e che si rivelerà essere ben più che uno spassionato cliente de “La diagonale”, la sfincioneria di Calò. Per non parlare del direttore della banca cui Mimmo si rivolge nella speranza di aprire la sua attività… In generale, Appalermo, Appalermo! mostra sapientemente l’intersecarsi dei concetti di giusto e sbagliato, il sovrapporsi del bianco e del nero.
Il libro di Loforti è il racconto di una città, di alcune vite, di un modo di intendere l’esistenza stessa dalle sfumature grigie: niente sembra ciò che appare o, se lo è, non è che una parte della verità. E Mimmo ne è la prova suprema: attaccato alla sua famiglia, è costretto a mentire ai propri cari circa i debiti dell’attività; sforzatosi di imbastire un business, finisce per dover convivere con il carretto degli sfincioni abusivi. Convivere, appunto, e fare compromessi: non sembra esserci altro modo per sopravvivere in mezzo ad una realtà, Palermo, che sembra rispecchiare, in piccolo, le dinamiche universali della vita, o per dirla alla Calò, “i fondamentali”. Il compromesso, dunque, come unica legge applicabile caso per caso: con le donne, col lavoro, con gli amici, col passato (vedasi l’esilarante scena finale al supermercato), con la burocrazia, con la legalità e chi più ne ha più ne metta.
Un’arte difficile da saper padroneggiare perfino per un uomo navigato quale Mimmo Calò. Dice, infatti, il protagonista: “E’ tutta una questione di fondamentali. Solo che io c’ho messo più di quarant’anni ad impararli. E continuerò a pagarne le conseguenze”.
Il lettore finisce inevitabilmente per immedesimarsi nelle avventure di Calò per un semplice motivo: perché le sue vicende non sono poi che le nostre, perché la sua sicilianità è l’emblema della vita che respiriamo giorno per giorno, perché la sua crescita e le sue lotte sono la nostra crescita e le nostre lotte.
Joshua Nicolosi