Perché celebrare un centenario? Perché ricordare il 1914? Non si tratta solamente del primo anno della Grande Guerra, ma di un anno che ha mostrato, proprio nelle dinamiche che hanno portato alla guerra, come l’ideologia della “modernità” abbia dato una svolta alla storia del mondo. Nei teatri di quegli anni si balla il can can, non ci si diverte soltanto con le sinfonie verdiane o i concerti mozartiani; un’epoca nuova nasce e va celebrata nei modi più luccicanti. Il ballo Excelsior mostra tutta la potenza del progresso, e non è solo una chimera per pochi: le strade e le case (almeno del ceto medio) si illuminano con l’energia elettrica, l’automobile (maschile per i più colti alla sequela dei Futuristi) accorcia le distanze in modo fin allora insperato, volare non è più un sogno. Il progresso si tocca con mano e sta diventando il nuovo idolo insieme all’altro idolo, quello della “religione” della libertà.
Per l’opinione pubblica di allora l’umanità procede verso un’emancipazione da tutte le schiavitù: l’uomo si avvia a ritenersi sempre più padrone del mondo, capace di realizzare strutture sociali nuove, istituzioni nuove, processi economici nuovi. Per altro il crescente grado di benessere che si estende (sia pur lentamente) alle classi sociali più basse è il riscontro pratico di questa nuova prospettiva antropologica. Si va ormai perdendo la differenza tra progresso tecnico-scientifico (basato sull’accumulazione delle scoperte scientifiche) e quello etico-culturale che va riconquistato da ogni generazione attraverso un approfondimento della propria condizione umana.
Questo scollamento è la premessa ideologica della tragedia della guerra. L’azione politica viene ad assumere un carattere provvidenziale, si afferma – come sostiene lo storico François Furet – la dimensione salvifica della politica e della conquista del potere, come avevano preconizzato i protagonisti della Rivoluzione francese. Nasce così lo statalismo, cioè l’incremento delle funzioni degli Stati, che sembrano gli unici soggetti in grado di mediare le esigenze dei vari gruppi sociali, con grandi limitazioni della autonomia della società civile. Ma un tarlo terribile si prospetta in questo trionfo del liberalismo progressista: la disumanizzazione del lavoro; il lavoratore, con buona pace di Leone XIII, è sempre più una variabile dipendente dal sistema produttivo.
In tutto ciò la guerra sembra scoppiare quasi per caso. Da un secolo era finito il conflitto europeo delle guerre napoleoniche. La parola “libertà”, il grande motore che aveva mosso le vicende di tutto l’Ottocento dal Congresso di Vienna (1815) a quello di Parigi (1856), a quello di Berlino (1878), avrebbe dovuto portare i popoli a una pace duratura, a una convivenza “fraterna” tra le nazioni. Tra il 1870 e il 1914 l’espansione coloniale conduce alla conquista di quasi tutta l’Africa e l’Asia, da parte degli Stati occidentali.
Oltre alle storiche presenze coloniali altri Stati si impegnano nella corsa alla conquista delle colonie (Belgio, Germania, Italia e Stati Uniti). I territori conquistati sono totalmente controllati, dall’aspetto militare a quello politico, da quello sociale a quello economico, dai nuovi padroni.
I campi di tensione in Europa sono vari, la frattura più grave è quella tra Germania e Francia, per l’Alsazia-Lorena; un crescente contrasto oppone Regno Unito e Germania per il desiderio tedesco di disporre di una marina di potenza paragonabile a quella britannica. Un’altra area di forte contrasto sono i Balcani, dove, man mano che si aggrava la crisi dell’Impero ottomano, si fronteggiano Austria-Ungheria e Russia. Dall’inizio del secolo assume un ruolo di detonatore il nazionalismo serbo. Ma la primavera del 1914 porta novità, alcune tensioni tra gli Stati europei sembrano comporsi: il presidente della Repubblica francese Poincaré si reca a cena nella sede dell’ambasciata tedesca a Parigi, in un clima sereno. È la prima volta dal 1871 che un presidente francese accetta un invito del genere. Il Kaiser Guglielmo II a Berlino aveva già partecipato ad una festa presso l’ambasciata francese in occasione del Trattato sul Marocco e sul Congo. Sono atti difficilmente interpretabili come segnali di conflitto imminente. L’antagonismo franco-tedesco si attenua e, in particolare in campo siderurgico e carbonifero, si realizzano diverse società miste. In un mondo che sembra procedere in relativa tranquillità un evento sconvolge tutto.
Succede qualcosa che non poteva accadere all’indomani di un secolo che – nota il filosofo Alain Finkielkraut − aveva sostituito il rullo delle bombarde con la corsa delle locomotive. Un fatto di cronaca aristocratica – l’omicidio di Sarajevo − che degenera; il brigantaggio del caso nella foresta degli avvenimenti. La notizia dell’assassinio dell’arciduca ereditario d’Austria, Francesco Ferdinando, e di sua moglie, occupa molto spazio sulle pagine dei giornali, ma la preoccupazione che potesse essere la miccia di un conflitto generale all’inizio fu quasi nulla e il mondo finanziario europeo non subì particolari scossoni. Le diplomazie sono convinte di poter sistemare la crisi con reciproche minacce, invece dopo la dichiarazione di guerra dell’Austria alla Serbia (28 luglio) nel giro di sei giorni tutta l’Europa (tranne l’Italia) è in guerra.
I poteri invece di guidare la dinamica degli eventi si lasciano determinare dalla logica del gioco in cui ognuno spera che l’avversario lasci il tavolo, spaventato dall’ennesimo rilancio. Ma così non è. Si va a una guerra che, secondo alcuni, sarebbe durata solo poche settimane e che invece copre cinque terribili anni; una guerra “mondiale”, la prima tragica forma di globalizzazione. Alla mobilitazione generale i giovani europei rispondono con entusiasmo (anche il socialista cristiano Charles Péguy si arruola per spirito di patria), tuttavia ben presto si trovano a marcire tra le trincee del fronte. I cattolici sono pacifisti, così come i socialisti che però in breve tempo, sulla spinta dei socialdemocratici tedeschi, aderiscono alla guerra.
L’unica supplica alla pace viene dai papi: Pio X muore di crepacuore allo scoppio del “guerrone”, Benedetto XV resta inascoltato. Neppure la breve tregua dei soldati al fronte per festeggiare il Natale ferma l’inarrestabile evento. Evento i cui protagonisti non prevedono le conseguenze delle loro azioni. La prima guerra mondiale appare fin da subito come la prevalenza di una “ragion di stato” politica sui valori umanistici; è un punto di svolta del Novecento, il momento in cui si innesca la dinamica che poi caratterizzerà tutto il secolo: la dialettica tra il tentativo ideologico di costruire un mondo “senza Dio” e la riscoperta della possibilità di costruire la convivenza umana, sempre perfettibile, sulla base della tradizione umanistica che ha sempre connotato la storia europea.
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Su questi temi Diesse Lombardia ha realizzato una mostra rivolta a studenti della scuola secondaria, enti formativi, centri culturali, biblioteche. La mostra, in venti pannelli a colori, è accompagnata da un libretto di 24 pp. e da un dvd con trailer dei film più interessanti sulla Grande Guerra commentati. Per informazioni: Diesse Lombardia tel. 02 45485517 [email protected] www.diesselombardia.it