Come è noto, Platone ha in più dialoghi ripreso dei miti, appartenenti alla tradizione o già elaborati in forma letteraria, riadattandoli ad esprimere nuovi significati. Uno dei racconti più complessi è contenuto nel Protagora. Il tema generale di questo dialogo, che vede protagonisti Socrate e il sofista da cui trae il titolo, è la scienza politica, su cui si sviluppa una discussione che non giunge ad un termine, ma viene rimandata ad una prosecuzione successiva. All’interno del dialogo Protagora racconta una storia, sviluppando un mito già noto dalle opere di Esiodo ed Eschilo, il mito di Prometeo, ma trasformandolo in una forma ultimamente aderente al tema.
La prima parte del racconto s’inserisce in una delle più frequenti riflessioni grecoromane sull’uomo: come è nato? chi gli ha dato origine? è un essere privilegiato dalla natura e dagli dèi o ne è un figliastro trascurato? e come si è sviluppato ed è progredito? Va detto che la maggior parte dei testi antichi lamenta l’abbandono in cui l’uomo è stato lasciato dalla nascita a differenza di altri esseri, privo di risorse, alla mercé degli elementi, della fame, della nudità, di ogni pericolo: la definizione di natura matrigna, che Leopardi riprenderà, si trova ad esempio nel poeta latino Lucrezio. Qui ne abbiamo una variante più fantasiosa, più personalizzata: “C’era un tempo in cui esistevano gli dèi, ma non le stirpi mortali. Quando anche per queste venne il tempo destinato per la nascita, gli dèi all’interno della terra le plasmarono di terra e fuoco e degli elementi da loro commisti“. Prima che le diverse stirpi vengano portate alla luce gli dèi incaricano i due titani fratelli, Prometeo ed Epimeteo, di fornirle del necessario per sopravvivere, ma Epimeteo chiede di effettuare la distribuzione da solo, lasciando al fratello unicamente il controllo finale. In un lungo elenco di interventi che sembrano molto saggi, Epimeteo fa in modo che ogni razza di animali sia dotata di caratteristiche proprie, in grado di assicurare la salvezza dell’individuo, o per lo meno la prosecuzione della stirpe. L’errore del titano è però quello di sprecare tutti i doni che ha a disposizione per gli animali, lasciando l’uomo totalmente sprovveduto proprio poco prima del momento in cui dovrebbe comparire sulla terra. Non quindi una natura matrigna, ma un distributore sciocco: l’esito sembra comunque il medesimo. Qui il racconto di Protagora inserisce la parte più nota del mito: Prometeo viene in aiuto al fratello rubando ad Efesto e Atena l’abilità tecnica insieme al fuoco: “dunque l’uomo così entrò in possesso dell’abilità relativa ai mezzi per vivere, ma non aveva ancora quella politica, perché si trovava presso Zeus“.
Prima di affrontare il tema fondamentale, l’impossibilità di entrare in possesso della capacità politica che solo Zeus possiede, il racconto passa in rassegna lo sviluppo del progresso umano, introducendo una serie di elementi di civiltà che si affiancano e si differenziano rispetto ai molti elenchi analoghi di poeti e filosofi: “poiché l’uomo partecipò così della sorte divina, anzitutto grazie alla parentela con dio fu l’unico degli esseri viventi a credere negli dèi, e si mise a innalzare loro altari e statue; in secondo luogo presto articolò voce e parole grazie all’abilità, e inventò case e vesti e calzari e coperte e i cibi tratti dalla terra“. Nell’elenco compaiono beni di cui l’uomo era privo per l’insipienza di Epimeteo, a differenza degli animali: ma il furto per cui (così si dice di passaggio) Prometeo è pure punito dà agli uomini molto più dei mezzi per vivere, una parentela con la divinità, la fede e la religione. Sembra quasi che il narratore si lasci prendere la mano dal racconto, introducendo un rapporto uomo/dio che costituisce per l’uomo la prima e massima forma di civiltà e per gli dèi la possibilità di esseri che li onorino. Ma subito si ritorna al punto lasciato indietro: senza la politica gli uomini erano indifesi dalle belve, perché incapaci di vivere in comunità: “cercavano sì di riunirsi e di salvarsi fondando città, ma quando si erano riuniti commettevano ingiustizie gli uni contro gli altri non avendo l’arte politica, e così di nuovo dispersi perivano“.
Ci vuole un intervento divino. Zeus ha pietà degli uomini e manda Ermes perché porti loro aidòs e dike. Aidòs(rispetto, ritegno) è il più importante sentimento sociale, che trattiene dal compiere il male per la presenza o per il pensiero della comunità di uomini; dike è la giustizia, che ripete nel nome quello della dea figlia di Zeus. Dunque la politica non è tanto una scienza o un’abilità particolare, ma consiste nel rispetto reciproco e nel senso di giustizia: “Ermes chiede a Zeus come deve dare agli uomini aidòs e dike: ‘Nel modo in cui sono distribuite le altre arti? Uno che possiede l’arte medica basta per molti profani, e così gli altri mestieri: anche dike e aidòs devo porli così negli uomini, o distribuirli a tutti?’ ‘A tutti — disse Zeus — e tutti ne partecipino; infatti non sorgerebbero città, se pochi ne partecipassero come delle altre arti: e poni come legge da parte mia che chi non è capace di partecipare di aidòs e dike sia ucciso in quanto malanno per la città’“.
L’inquietante conclusione del racconto è la conseguenza delle caratteristiche del dono di Zeus: se il dono è dato a tutti gli uomini, chi non ne partecipa non è uomo ma un essere estraneo alla comunità umana.