La mostra dedicata a Bernardino Luini a Palazzo Reale dal 10 aprile al 13 luglio 2014 piacevolmente risponde ad un criterio secondo cui la parola “cultura” non fa necessariamente rima con “moda”. Fa specie infatti vedere le code che ancora si intravedono, sempre davanti al medesimo Palazzo Reale, per un Kandinsky o per un Klimt che così poco hanno a vedere con una percezione reale del fenomeno che essi rappresentano, quanto con una sicura “moda” che, comunque, aiuta a staccar biglietti (la qual cosa rientra comunque negli obiettivi della macchina culturale).
La mostra del Luini si distingue per la sua caratteristica fondamentale di essere legata in maniera concreta, e da tutti sperimentabile, con la città, con il nostro territorio. Come non ha mancato di notare il sindaco nella sua breve introduzione, “Milano è la casa di Luini: le grandi pinacoteche e le chiese della nostra città ne ospitano da sempre i capolavori”. È molto importante quindi tener conto che con mostre di questo genere, che non seguono necessariamente la cultura di massa o nomi che hanno presa mediatica immediata, si offra però la possibilità di “accorgersi” di quanto, artisticamente importante, “convive” con il cittadino nella quotidianità dei suoi riferimenti.
Luini, dunque, o meglio, Bernardino Scapi da Dumenza, vicino a Luino (data di nascita ignota, primo segno ufficiale della sua presenza anno 1501, morto nel 1532) gestore con il padre e la famiglia di un banco di frutta e verdura in piazza del Duomo a Milano, può essere visto come un artista della “transizione”. Attraverso la sua opera, per noi lombardi, “diffusa” (in mostra viene distribuito un dépliant, Itinerari, dando un’occhiata al quale è immediato capire come e quanto il Luini sia intorno a noi) è dato percepire il momento tutto particolare attraverso cui stavano passando Milano e il suo Ducato attorno ai primi del ‘500.
Nell’arco della sua attività vedrà succedersi i francesi al dominio sforzesco (1499) e Milano si appresterà poi a passare, dopo un ultimo intermezzo sforzesco, sotto gli spagnoli (1535). Sono gli ultimi anni di una storia tutta “italiana” se così possiamo chiamare la parabola comuni-signorie che è stata il genio del nostro Paese. Da quel momento lo straniero sarà una costante a casa nostra. In Bernardino Luini vengono ad assommarsi i lasciti quattrocenteschi, i cui momenti più significativi ben visibili nella nostra città sono stati Bramante e Leonardo, che passando attraverso i fiamminghi e un tocco di Raffaello ci porteranno poi verso la maniera.
Con la caduta degli Sforza crolla anche quella idea di “Città italiana ideale” che nel Museo del Palazzo di Urbino un autore, probabilmente della cerchia del Bramante, aveva narrato. Sul fronte strettamente letterario farà la sua comparsa quell’idea che traspare dal Cortegiano dell’indebolimento della subordinazione, con il suo eccesso di superlativi assoluti, a favore della più quotidiana coordinazione degli elementi sintattici.
Alla fine del ‘400, a Milano, basti pensare a santa Maria delle Grazie o a santa Maria presso san Satiro, il significato va cercato all’interno di una perfezione prospettica. Ma se questo significato è la perfezione matematica delle forme, come dice il Pirenne “dopo l’inizio del XVI secolo, la società frammentata dall’evoluzione delle cose, presenta irrimediabilmente una prospettiva meno grandiosa di quella del Medio Evo, ispirata completamente dalla stessa fede religiosa e dalla stesso ideale cristallino”. Lungo il percorso espositivo è dato osservare il lento trapasso da un’impostazione ancora “foppesca” che, attraverso il chiaroscuro dell’ombra, fa sì che la luce penetri nel colore dandogli vera fisicità, al “colorismo” veneto, ambito in cui si ritiene il Luini abbia vissuto nel periodo di tempo (1504-1507) misteriosamente “sparito” dalla circolazione. Non manca l’apporto del fiamminghismo − che, non solo grazie ad Antonello, in Italia aveva ormai ampia recezione e ci incanta in quei paesaggi che si profilano nelle lontananze −, come non mancano i figli (ai quali viene intitolata la mostra accanto al nome del padre) che vengono esposti nell’ultima sala e intelligentemente confrontati con quello che ormai è pieno manierismo. Colpisce come gli accessori perdano la loro carica simbolica, ancora tardogotica, a vantaggio di un’espressione immediata, trasparente che altro non sarà che una delle forme ultime dello sviluppo del pensiero medioevale, preso dal bisogno di convertire in immagini precise ogni nozione di sacro. Salvo poi piombare nell’allegorismo barocco. Il realismo dei particolari sfocerà infine, ma Bernardino non ci sarà più, nell’irreale delle parti dell’insieme.
Se nel santuario di Saronno Luini mostrerà di essere aggiornato sulla pittura romana di Raffaello e Michelangelo, non implicando più solo Leonardo nel classicismo delle sue figure, è evidente come in genere la sua libertà cromatica e felicità narrativa affondino nella lezione leonardesca: “Ecci un’altra prospettiva, la quale chiamo aerea, imperoché per la varietà dell’aria si può conoscere la diversa distanzia. Il più lontano fallo meno profilato e più azzurro”.
Quello che affascina di questa mostra è sentirsi condotti − lontano da effetti monumentali e decorativi − verso l’evocazione di un senso di intimità che, se talora sembra perdere l’antico orientamento esplicito verso l’eternità, semplicemente, riflettendo la vita interiore, capta quella esteriore che osserva, come nel casto ed espressivo nudo della “Donna distesa” (1525-30; ora a Washington). La predilezione per il dettaglio naturale, fiori, o animali come nella spalliera di rose che fa da fondale alla Madonna con Bambino di Brera (1515-17) o il bellissimo agnello stretto da Bambino Gesù (1525 in Ambrosiana e amatissimo da Federico Borromeo) ci affascina e mai scade in naturalismo o in quel virtuosismo manieristico lì alla porta.