Se l’anidride carbonica (CO2) in atmosfera è troppa, si può “sequestrarla” e ricacciarla sottoterra da dove è arrivata. L’idea è abbastanza semplice ma ormai non è più solo un’idea. Si chiama CO2 Capture and Storage (o, a seconda dei gusti, Carbon Capture and Sequestration; in ogni caso l’acronimo è CCS), cioè cattura del carbonio e suo confinamento in siti opportuni, e si sta arricchendo di progetti e realizzazioni in tutto il mondo. Recentemente è stata la stessa Unione Europea a lanciare un finanziamento per sostenere 12 progetti dimostrativi su larga scala per poter collaudare sistemi e metodi e perfezionare le varie tecniche di CCS, imparando quindi da casi concreti e verificando sulla realtà i molti modelli teorici. Uno di questi dodici progetti sarà in Italia e sarà installato nell’alto adriatico da Enel.
Ne hanno parlato nei giorni scorsi al Museo della Scienza e della Tecnologia di Milano Iginio Marson, presidente dell’Istituto nazionale di Oceanografia e di Geofisica sperimentale (OGS) di Trieste e Sergio Persoglia, che opera sempre all’OGS ed è anche segretario generale del programma europeo CO2GeoNet, una rete di eccellenza che riunisce oltre a OGS una dozzina di istituzioni e centri scientifici europei.
Secondo Marson, vale la pena catturare la CO2 perché c’è la possibilità concreta di confinarla nel sottosuolo in modo efficace e sicuro; attuando così un “un riciclo virtuoso” che stabilizzi la presenza di questa sostanza su livelli adeguati. È bene ricordare che l’anidride carbonica di per sé non è propriamente un inquinante e una sua presenza equilibrata in atmosfera è preziosa per garantire l’effetto serra necessario a mantenere la temperatura del Pianeta su valori utili alla vita e a tutti gli ecosistemi. Diventa un problema quando l’equilibrio si rompe e la concentrazione di CO2 risulta eccessiva. Mentre procede il dibattito sulle cause di tale fenomeno, resta la possibilità di contribuire alla sua riduzione reimmettendola nel sottosuolo.
Persoglia sottolinea che non è poi così strano pensare a dei giacimenti sotterranei di CO2: basterebbe ricordare le fonti di acqua minerale. Anche le emissioni di CO2 sono presenti in natura e non sono solo derivate dalle attività antropiche: ci sono ampie zone di degassamento dei suoli da attività vulcaniche e ci sono località ben conosciute per gli accumuli di anidride carbonica. Sono numerosi, ad esempio, i campi di CO2 nella valle meridionale del Rodano e in Italia è nota l’area vicino a Ciampino dove c’è un’alta concentrazione sotterranea di CO2 che rilascia in atmosfera circa sette tonnellate al giorno di questo gas.
Per realizzare il sequestro programmato della CO2, i passaggi tecnologici essenziali sono tre: la cosiddetta “cattura”, il trasporto e l’immagazzinamento.
Per la prima fase sono ben conosciuti da tempo, soprattutto nell’industria chimica, tre tipi di processi: quello pre-combustione, impiegato nella produzione di fertilizzanti, sostanze chimiche, e combustibili gassosi e consistente nell’ossidazione del combustibile in un gassificatore prima della combustione; uno post-combustione, applicato agli impianti di generazione elettrica dove la CO2 viene catturata dal gas esausti “assorbendola” mediante lavaggio dei fumi a bassa temperatura con ammine; un terzo processo è detto di combustione Oxy-fuel, dove il combustibile viene bruciato in Ossigeno puro, invece che in aria.
Il problema è di rendere tali processi praticabili a livello industriale ed economici: c’è ovviamente un prezzo da pagare per l’adeguamento degli impianti e per le relative apparecchiature; ma, a lungo andare, l’operazione può risultare conveniente.
Il secondo passaggio è il trasporto, che può avvenire in forma liquida e secca, in pipeline simili a quelle per il trasporto di metano, ma con rischio trascurabile. Anche per questo non mancano gli esempi significativi: in Usa ci sono reti di pipeline di questo tipo con estensioni fino a 300 chilometri, che partono dagli impianti industriali del sud del Texas e arrivano fino al Colorado e al Wyoming.
Infine c’è il problema della collocazione. Anche questo vede diverse soluzioni ma le principali sono l’immagazzinamento nel sottosuolo a varie profondità e lo stoccaggio liquido negli oceani. All’OGS si occupano attivamente del primo metodo e hanno individuato molti siti adatti per il confinamento in Italia. Si tratta di trovare rocce porose, quindi con spazi liberi per iniettare la CO2, sovrastate da altre rocce non porose che fanno da sigillanti. Il gas viene iniettato in formazioni di forma ricurva, a duomo, e c’è un meccanismo che permette di riempire gli interstizi e di intrappolare l’anidride carbonica.
Al mondo ci sono tre impianti operativi di CCS su scala industriale: a Sleipner in Norvegia dal 1996, a Weyburn in Canada dal 2000 e a In Salah in Algeria dal 2004. Nell’ambito del programma CO2GeoNet si sta perfezionando e aggiornando una mappa dei siti più favorevoli in Europa e delle possibili pipeline: secondo alcune stime, si potrebbero stoccare 150 anni di emissioni del Vecchio Continente.
Va aggiunto il fatto che una volta iniettata nelle formazioni geologiche, è possibile controllare il confinamento della CO2: ci sono varie tecniche, testate per individuare dove avvengono emissioni naturali indesiderate e anche dove potrebbero avvenire nei prossimi anni. Il confinamento può quindi essere effettuato in modo sicuro. Del resto, in nessuno dei tre siti sopra indicati, dove vengono stoccate mediamente più di un milione di tonnellate di CO2 all’anno, si sono finora registrate fughe dell’anidride carbonica immagazzinata.