Caro direttore,
a partire dal discorso di Benedetto XVI pronunciato il primo gennaio scorso in occasione della Giornata mondiale della pace – e dell’intervista, pubblicata su queste pagine, a Mons. Paolo Pezzi, arcivescovo di Mosca – vorrei intervenire su alcuni nodi che mi sembrano cruciali oggi intorno al rapporto fra l’aspirazione alla pace e le concezioni dell’educazione.
Il termine “affetto” messo a fuoco da mons. Pezzi mi ha colpito per la sua accezione più densa di quella corrente di mero sentimento, e riguardante piuttosto, sulla scia del termine latino adfectus, una disposizione, un desiderio, una commozione. Cioè affetto è termine che riguarda il funzionamento dell’interezza dell’individuo, compresa la sua ragione. Adfectus è ciò che mi percuote, che mi spiazza e mi cambia, ma anche mi rianima perché mi fa uscire dal mio buco, dalla gabbia dei miei fantasmi.
Ma ciò non avviene se sono solo, se rifletto e rimugino da solo. È solo un altro, fosse anche immaginato, solo un altro che mi dà un sapere più grande, meno angusto di me. Come dice il Salmista: “Quia iudicia tua iucunda” ( Perché i tuoi giudizi sono motivo di allegrezza”).
Ma, questa è la forza del discorso del Papa, questo atteggiamento e questo modo di rapportarmi alla mia vita e agli altri non riguarda soltanto l’uomo credente. Esso è una struttura dell’umano come tale. La domanda “Chi sono io?” non è una domanda che si aggiunge alle fredde e necessarie esigenze della scienza, della tecnica e oggi, in modo devastante, della finanza. La domanda “Chi sono io” riguarda un modo del mio sapere, del mio sapermi: riguarda il rapporto fra me e il sapere.
La società odierna tende a spezzare questo rapporto: non vuole questa domanda. Questa domanda può far pensare, può fare del male perché può obbligarmi ad abbandonare le mie nicchie e i miei comodi. Gli uomini di oggi, in generale, non vogliono saperne, alla lettera.
Spesso gli studenti non vogliono i professori che li fanno pensare – che esigono, che chiedono uno sforzo, che chiedono loro di dire di sì. Questi professori sono pochi, pochi hanno adfectus per la loro disciplina e quindi non sono in grado di muovere nessun interesse e nessuna stima. Ma quando ci sono professori propriamente tali nasce l’avventura dell’educazione che, come dice Benedetto XVI, è il dramma di due libertà.
Che dire del rapporto fra genitori e figli? I genitori spesso si adattano a frasi disperate quanto insulse del tipo, “Sono ragazzi, è normale. È la mentalità di oggi”. Se il genitore non è semplicemente uno che deposita (alla lettera) i figli da qualche parte o uno chi li vuole modellare a sua immagine, allora prende corpo il desiderio di felicità, comunque venga concepito. La felicità dei figli non sembra consistere in un meraviglioso benessere, ma sembra piuttosto legata al modo con cui essi potranno rilanciare la domanda dei loro genitori. Si tratta di rivivere e verificare la domanda che i genitori hanno vissuto, verso di loro stessi e verso la vita. Magari così facendo i figli rifiutano e trasformano queste domande. Ma si apre per loro una via di crescita. Si tratta di lasciarsi gestire da una realtà più grande di sé, della propria istintività e della propria misura. I figli potranno essere generati da una realtà più grande di loro: più grande anche dei loro genitori. Che cosa infatti può fare un genitore che vuole bene a un figlio, se non dare ciò che non ha: cioè trepidare perché cresca, perché fiorisca, perché sia in pace con se stesso?
Dare ciò che non si ha: questa è la regola dell’educazione, elusa la quale l’educazione diventa un possesso, un dominio, imperniato su dei principi e delle norme rassicuranti, come afferma mons. Pezzi. Una educazione siffatta è però un fragile argine al dilagare della violenza, sia nei genitori sia nei figli.
Ci vogliono maestri. Ci vogliono genitori in grado di assumersi il loro compito. Come fare oggi quando sembra che ce ne siano così pochi? Ma essere maestro non ha significato in passato e non significa oggi essere dei geni o dei superman. Significa ritenere, come dice S. Agostino nel suo De magistro, che insegnare sia domandare e che domandare sia insegnare (“quando tu insegni domandi e quando domandi veramente insegni”). Questa affermazione è quasi totalmente incomprensibile per la cultura e la mentalità odierne. Si pensa infatti: se insegno so e quindi non domando, se domando non so e quindi non insegno. Questa ultima affermazione sarebbe corretta se l’insegnare venisse concepito come un dominio: un domino di quello che dico e soprattutto un dominio del mio interlocutore, del mio”discepolo”.
Ma insegnare può essere, e con maggior verità, un altro tipo di azione. Insegnare è trasmettere ciò che non è mio, che non è mio possesso (il che del resto è vero in tutti i sensi: professionale, culturale, tecnico, storico e riguarda ogni esperienza, dall’idraulico al notaio), insegnare è dare (il che fa tremare le vene e i polsi), dare ciò che mi arriva da una tradizione, da un maestro, insegnare è passare il testimone, alla lettera, come nella corsa a squadre. Insegnare è trepidare perché un essere umano accolga, e ne viva e possa trasmettere lui stesso un sapere che include, nella sua struttura, la speranza. Nella sua struttura e non come un sentimento interioristico e collaterale.
Ho cercato di delineare le due grandi figure cardini dell’educazione: il maestro e il genitore. In entrambe queste figure si esprimono le due capacità più essenziali e decisive per l’essere umano: il sapere e la libertà.
L’incontro con una figura autorevole è sempre incontro con una esperienza di sapere, dove il sapere funziona in quanto spiazza, cambia e induce un ritrovamento di sé. D’altra parte tale dinamica implica il coinvolgimento degli attori di quel difficile avvenimento dell’e-ducere, dell’educare, che sembra costituisca una sorta di portato, di prodotto di tale coinvolgimento. La libertà, in questo laborioso farsi che è l’educazione del piccolo d’uomo, il quale rimane, a suo modo, sempre piccolo, sembra funzionare come la capacità radicale di un sì, di una adesione al rischio di un non mio, che è ciò che di più proprio c’è nell’individuo umano.
Il legame tra individui non consiste, in definitiva, in leggi, norme, principi, ma piuttosto in gesti di libertà, in dei “sì” che sono generativi di un riconoscimento che è in grado di suscitare l’altro. La libertà è dirti di sì, e, più radicalmente chiederti di dirmi di sé (quando due esseri umani si dicono di sì nel riconoscimento della loro imprendibile origine, lì c’è Dio, dice Hegel nella Fenomenologia dello spirito).
Qui, in questa abissale risorsa, si nasconde forse il legame, non garantito, ma invincibilmente attivo, fra l’educazione e la pace. Del resto la ragione dell’uomo, se non si arrende a un alterità che la genera, normalmente genera mostri: ideologie totalitarie, dittature, omicidi, in tutti i sensi di questo termine. Oppure genera miti come il progresso, il super-uomo e tutti gli altri miti che si succedono nella storia.
In questo senso il richiamo deciso al rapporto con Dio e a un’affermazione (dunque un saperne) intorno a Dio presente sia nel discorso di Benedetto XVI – e di rimando nelle parole dell’Arcivescovo di Mosca – non costituisce solamente un richiamo credente ad un cristiano affidarsi, ma l’indicazione di quella piega, di quel dislivello imprendibile in cui l’io si cerca e si ritrova restituito a se stesso.