Eugenio Borgna è, sin dal tempo in cui lavorava presso l’ex manicomio di Novara, un vero e proprio medico dell’anima. Seguace/sostenitore cioè di una psichiatria dal volto umano, in grado di prendersi cura davvero delle persone sofferenti nella psiche. Una psichiatria fenomenologica, in altri termini, capace — per dirla con le parole del nostro dottore — di un “dialogo infinito con i pazienti vissuti nella loro complessità esistenziale, e nella loro unità psicosomatica”. Tuttavia, per misurarsi con l’abissale dolore umano, troppo umano di coloro i quali un tempo venivano sbrigativamente etichettati come pazzi, mai è bastata a Borgna la mera conoscenza medico-scientifica, ma accanto a questa egli si è avvalso di altri saperi, di testi non certo solo clinico-specialistici, che piuttosto lo hanno fatto sempre più avvicinare alla filosofia e alla letteratura.
Numerosi sono i libri scritti da questo autore, così attento alla patologia psichica, che affrontano infatti i territori metaforici e allusivi della poesia e della narrativa o della saggistica declinata nel segno della riflessione. Pure il suo ultimo scritto: L’indicibile tenerezza. In cammino con Simone Weil (edito da Feltrinelli) ha come proposito giusto quello di riflettere sulla notevole influenza che le opere e la biografia della Weil — ma non solo: anche quelle di Leopardi, di Nietzsche, di Rilke, di Etty Hillesum, per non tralasciare infine le testimonianze lasciateci da figure peculiari di donne caritatevoli come Teresa di Lisieux o madre Teresa di Calcutta — possono esercitare “nelle aree tematiche della psichiatria come scienza umana”.
Così alla lettura delle dolorose ed alienanti esperienze di Simone Weil in fabbrica, Borgna accosta quelle tragiche, patite da Etty Hillesum nel campo di concentramento nazista a Westerbork. Perciò egli confronta certe pagine del filosofo sostenitore della morte di Dio intorno al disagio esistenziale moderno con altre — analoghe — del poeta di Recanati, finendo altresì per far parlare perfino due sante, che ci narrano quelle che potrebbero esser chiamate le notti oscure dell’anima: proprie e altrui. Ma è in primo luogo l’opera di Simone Weil che lo psichiatra-scrittore interroga, ritenendo condivisibilmente che in essa “risplende una straordinaria testimonianza umana dalla quale sgorgano motivi sconfinati di comprensione e di conoscenza di ogni vita straziata dal dolore, e di ogni vita illuminata dalla speranza”.
Se volessimo peraltro individuare con maggior precisione la cifra comune che affratella gli autori presi in esame, potremmo coglierla nella capacità — che ognuno di essi ha dimostrato di avere — del riuscire a far fronte con coraggio, passione e lucidità profonde al disagio e alla sofferenza, anche estrema. In maniere dissimili, è ovvio, ma che corroborano la tesi per cui non si dà autentico conoscere senza patire.
Ciò non significa affatto tessere un elogio del malessere, bensì andare alla ricerca di un senso nell’apparentemente insensatezza del dolore — di ogni dolore, ma con particolare attenzione a quello psichico, forse il più devastante di tutti —, che può divenire per Nietzsche “l’estremo liberatore dello spirito”, o che viene visto dalla Weil quale necessità inevitabile che ogni essere umano deve saper attraversare/accogliere. Sempre tenendo presente, a detta del nostro psichiatra, di come incerti e continui siano negli umani, oggi come ieri, gli “sconfinamenti” tra salute mentale e follia, tra normalità e patologia conclamata.
Ogni malheur, quindi (per dirla nel francese della Weil), ogni sventura può venir colta come ventura; nel senso che la nostra sorte è comunque contraddistinta — presto o tardi — dalla malattia o dal venir meno di cose, persone, luoghi, progetti, conseguimenti, e chi più ne ha ne metta. In quanto l’umana condizione è transeunte, sempre esposta al rischio della perdita, del mutamento o del commiato; vedi innanzitutto quello estremo, l’exitusdalla vita. Accettare questa precarietà/instabilità senza illudersi di poterla evitare è dunque forse la ricetta migliore per un’esistenza, se non nel segno della salute ottimale, almeno in quello della saggezza.