Uno dei molti aspetti felici del libro Viva il latino di Nicola Gardini, a suo tempo recensito in queste colonne, è il lavoro compiuto su singole parole. Vi si rivela non solo la competenza sui testi, ma anche la capacità di far risaltare lo splendore dei significati, di inserire lo studio puntuale in un più vasto campo di pensiero e di atteggiamento culturale. In questo modo anche il linguaggio comune acquista profondità e ricchezza.
Il professor Gardini ricava una prima parola da Virgilio. Il vocabolo “umbra” è molto amato dal poeta amico di Augusto, che vive nell’oro dell’impero nascente, ma non dimentica il prezzo di dolori con il quale esso si è costituito. Il primo capolavoro virgiliano sono le Bucoliche, canti importati dalla poesia greca e poi variamente imitati nella letteratura posteriore, costituiti dall’intreccio di due archetipi della cultura occidentale: il paesaggio delle origini, in cui la natura è protetta e protettiva, animata e partecipe dei sentimenti dell’uomo, e il sogno del rinnovamento. Ebbene, in questi canti virgiliani risuona spesso la parola “umbra”, termine prediletto dal poeta, che con esso chiude persino l’Eneide. Scrive l’autore: “Umbra è per me una delle più belle parole della lingua latina”. Passa dall’oscuro della vocale iniziale al chiaro di quella finale, attraverso il concertino di ben tre consonanti; etimologicamente è imparentato con imber, pioggia: entrambe le parole indicano la mancanza della luce. Il mondo di Virgilio non sta tutto al sole e l’ombra è refrigerio dalla canicola, riparo dalla fatica, ma anche mistero, nascondimento, presagio di un al di là. Se Titiro può stare tranquillo all’ombra di un ampio faggio a comporre i suoi canti, le ombre più grandi degli alti monti cadono sul cammino del meno fortunato Melibeo, costretto all’esilio al termine di una dolorosa giornata. In entrambi i casi l’ombra accompagna e consola l’uomo, nella serenità e nella malinconia.
Seneca, “quello degli autori antichi che più mi ha insegnato a vivere”: è il tributo di Gardini all’antico maestro. E come? “Il latino di Seneca è il riflesso diretto della sua lucidità e della sua inclinazione alla sintesi: falcia e lima, andando dritto al cuore delle questioni, senza complicare, senza alzare la voce, senza sdegni”. La simplicitas in Seneca è qualità assimilabile alla sincerità e alla lealtà. Lo studioso individua in essa il punto di convergenza tra la retorica pagana del filosofo e quella di Gesù, che parlava in parabole. Seneca non prescrittivo, ma capace di svelare l’inganno dell’apparenza e dunque apportatore di libertà. Non lontano, anche se più angusto, dall’evangelico “conoscerete la verità e la verità vi farà liberi”.
Ed ecco un’altra parola, così centrale in tutta la storiografia romana, da Sallustio a Livio a Tacito, così intrisa di nostalgia per la sobrietà degli inizi di Roma, così turbata e sdegnata dalle lotte per il dominio della città. Si tratta dell’avarizia, la lupa dantesca.
Inscritta in un repertorio di parole che nel passaggio dalla civiltà pagana hanno mutato di significato con l’avvento del cristianesimo, si trova la sua descrizione in san Gerolamo: “Devi evitare anche il vizio dell’avarizia, non nel senso che non devi volere le cose di altri — questo infatti lo puniscono anche le leggi dello stato — ma nel senso che non ti tenga strette le tue cose, che in realtà sono di altri (cioè di Dio)”. I due significati, avidità e spilorceria, erano ben conosciuti nel latino classico, ma il traduttore della Vulgata insiste soprattutto sul secondo, che corrisponde all’etica cristiana che va ben oltre le leggi umane. Si tratta di una interiorizzazione della legge, resa possibile da qualcosa di oltre, il riconoscimento del bene ricevuto, non soltanto conquistato.