In Gran Bretagna è uscita in questi giorni una nuova edizione dell’antico Beowulf nella versione di J.R.R. Tolkien. Il Beowulf, opera di autore anonimo, di datazione incerta (si oscilla tra la metà del VII e il IX secolo), è il più antico testo poetico lungo scritto in lingua volgare europea, l’unica epica compiuta delle letterature germaniche antiche e infine il più importante testo della letteratura anglo-sassone.
Tolkien, professore di Filologia ad Oxford, vi dedicò lunghi studi, e non solo: potremmo considerare il Beowulf l’opera che più ispirò la sua poetica. Questa pubblicazione quindi non va considerata un’operazione meramente commerciale, con cui andare a raschiare il fondo del barile della produzione tolkieniana, ma un apporto fondamentale per comprendere a fondo la visione artistica e filosofica dell’autore del Signore degli Anelli.
L’antico poema che soggiogò l’attenzione di Tolkien è dedicato fondamentalmente allo schema archetipico del combattimento tra un uomo e un mostro, che divenne uno dei grandi motivi dell’antica narrativa dell’immaginario, e che troverà una delle massime espressioni proprio nel Signore degli Anelli.
Il Beowulf è il racconto della lotta tra l’uomo e il mostro: che si tratti dell’orco Grendel o del Drago, il mostro rappresenta il caos, il disordine, il frutto guasto del male. Nell’epoca moderna il mostro è anche l’uomo destrutturato, addirittura scisso come nel Dottor Jeckyll e Mister Hyde dello scrittore scozzese Robert Louis Stevenson; il tema del “doppio” sarà caro anche ad un altro grande autore di racconti fantastici del ventesimo secolo: Jorge Luis Borges.
Tolkien ripropose il tema presente fin dal Beowulf della lotta contro il mostro, rappresentandola come combattimento contro la paura, rivisitandolo alla luce della visione cristiana, sia che gli eroi siano dei cavalieri oppure dei piccoli Hobbit: il mostro è anzitutto dentro di noi, è la nostra tendenza a lasciarci affascinare dal lato oscuro, è la paura che ci impedisce di cercare le cose grandi, pure e nobili, coltivando la splendida virtù della magnanimità, che consiste per l’appunto nel volersi dedicare a cose grandi, disprezzando quelle vili e meschine.
In un saggio che a suo tempo aveva dedicato al Beowulf, scriveva Tolkien: “La tragedia della grande disfatta nel Tempo resta pungente per un po’, ma cessa di essere alla fin fine importante. Non è una disfatta, perché la fine del mondo è parte del disegno del Creatore: l’Arbitro che sta al di sopra del mondo mortale. Dietro, appare la possibilità di una vittoria eterna (o di una eterna sconfitta), e la vera battaglia è fra l’anima e i suoi avversari. Così i vecchi mostri divennero immagini dello spirito o degli spiriti del male, o piuttosto gli spiriti malvagi entrarono nei mostri e presero forma visibile nei corpi orrendi dell’immaginazione pagana“.
Per Tolkien, per ridare sanità e santità ad un mondo che ritornava progressivamente agli orrori pre-cristiani, occorreva metter mano ad una ricostruzione della battaglia dell’anima dagli inizi, dalla genesi, collocando le storie degli elfi, che nascevano dall’invenzione della loro lingua, in un mondo compiuto e coerente.
Nel Beowulf Tolkien trovò il tema profondo e metafisico del controllo del Caos, del conflitto tra cultura e natura, dello sforzo di dare ordine all’esistente, dominando e vincendo la paura. La grande sfida col Mostro è inoltre preceduta, anche in questo poema, da una lunga esperienza di formazione. Il Beowulf è un’opera intellettualmente complessa, con strumenti di rappresentazione sensibili e raffinati. Come si diceva, per le sue diverse caratteristiche di unicità e originalità conquistò anche Tolkien, trasfondendo nella sua opera altrettanti di quegli elementi di assoluta peculiarità che ne costituiscono il genio letterario.
Tolkien introduce questo schema nelle vicende dei suoi personaggi, con rispettose ma evidenti corrispondenze: come Beowulf affronta dei mostri “minori” − gli Orchi − prima della sfida col drago, così avviene anche per il protagonista tolkieniano, l’hobbit Bilbo Baggins. Analogie ci sono tra i due draghi che montano la guardia a grandi ricchezze. A proposito del tesoro, nell’antico poema medievale il tema dei gioielli è uno dei più interessanti: ci si dilunga sulla magnificenza dell’oreficieria, sul riverbero degli ori. Anche Bilbo nel corso della sua avventura si imbatte in un particolarissimo gioiello, un anello il cui ritrovamento sconvolgerà in maniera definitiva la Storia della Terra di Mezzo. È proprio il tipo di finale che Tolkien sceglie per il suo libro che lo distacca, per la prima volta, dai suoi modelli letterari: non solo viene introdotto il concetto di eucatastrofe, ossia una conclusione positiva, lα dove invece il Beowulf terminava in modo tragico con la morte dell’eroe, ma lo stesso archetipo della lotta dell’uomo col mostro assume nuove caratteristiche psicologiche e morali.
Se infatti la sconfitta dell’eroe Beowulf era stata causata dal suo orgoglio, dalla presunzione di sé e delle proprie forze che lo aveva spinto ad affrontare il drago da solo, così che egli vince sì la sfida con sé stesso, con la propria paura dell’incognito e del terribile, ma soccombe di fronte alla forza superiore dell’avversario, e sventura ne sarebbe venuta per tutto il suo popolo, l’esito dello Hobbit è quanto mai diverso: anche Bilbo affronta la paura, supera una serie di prove di tipo iniziatico che lo conducono verso successive “discese agli inferi”, affrontando buie gallerie, tempeste, presenze ostili; entrando nelle viscere della Montagna Solitaria, si trova anche faccia a faccia con il drago, dal quale accetta una sfida dal sapore antichissimo, basata sulla risoluzione di indovinelli.
Tutto questo però non completamente o non sempre da solo, ma con amici, alleati, compagni d’arme. Non sarà lui ad uccidere il drago, ma avrà contribuito in maniera decisiva al buon esito dell’impresa, facendo sì che, dopo la vittoria e il recupero del tesoro, l’avidità di uomini e nani già alleati non li spinga a combattere gli uni contro gli altri esponendoli poi all’assalto di un nuovo nemico alle porte, le orde degli orchi. Bilbo Baggins non riporta a casa nessun bottino, se non quell’inquietante anello d’oro trovato casualmente, ma è cambiato: è un hobbit diverso, che ha acquisito conoscenza del mondo e di sé stesso.