La satira ha spesso vita breve, perché dura il tempo dell’oggetto che va a stigmatizzare, e certamente non è gradita a chi viene stigmatizzato, anche se può apparire giusta e veritiera a chi di quello sguardo pungente non è oggetto, ma anzi apprezza, della satira, il metter a nudo quell’errore, follia, stortura, difetto o limite che così appare palese. Mentre l’ironia è un atto d’amore vestito di arguzia, non vi può essere amore o perdono nella satira; in una vignetta satirica il gobbo di Notre Dame, piccolo e sgraziato, serve a rassicurare noi sani della perfezione (irreale o temporanea) del nostro corpo e della nostra anima. Il nostro limite viene esorcizzato, “cancellato” perché trasferito su di lui, che sconta per noi l’immensa fragilità dell’essere umani.
Ma se quel gobbo siamo noi, e la gobba è pronunciata, al punto da deformare i tratti e renderli irriconoscibili, allora scatta l’orrore, e l’orrore trascina con se l’indignazione, il rifiuto, e l’accusa di aver passato il limite. E’ un limite che chi ci ha disegnato come brandelli di corpo fra macerie, o stecchi di uomini insanguinati per un “sisma all’italiana”, mischiando profano — la cucina italiana — con sacro — la vita umana — non vede non per cecità, ma per consapevole, deliberato ed impreciso mestiere.
La satira di Charlie Hebdo si occupa di morte, sesso, religione, costume e politica indifferentemente, e il limite è solo per chi è rappresentato nella vignetta satirica, non per chi la disegna, al di là del carattere personale, magari mitissimo, del vignettista stesso. E chi ha accettato la dissacrazione di Maometto o di Cristo — perché senso del limite e del sacro sono faccia della stessa medaglia — senza colpo ferire, ma è inorridito di fronte alle vignette sul terremoto di Amatrice, ha avuto in realtà l’occasione di fare, attraverso la satira, un percorso di conoscenza.
Se la religione non ha più alcuna sacralità per costui, e non ha visto l’oltraggio né di Maometto né di Cristo nelle vignette satiriche di Charlie Hebdo, ma lo ha ritrovato nell’offesa imperdonabile al sentimento di appartenenza nazionale e, si spera, al rispetto delle vite umane perse, allora la satira ha fatto, con tutta la sua violenza imperdonabile, il suo brutale mestiere, restituendogli il senso del limite. Tuttavia la scarsa frequentazione della satira, sommersa da linguaggi più accattivanti perché tesi a catturare, lusingare il fruitore, fa diventare questo sussulto di conoscenza un episodio che non avrà come molti altri, altro esito che l’indignazione speciale di quell’istante.
Diverso sarebbe il sentire se la satira esistesse ancora come genere letterario, se fosse scritta e letta, magari non sempre apprezzata ed elogiata, ma perlomeno avesse una dignità datale da una tradizione, da un intento, da un motivo più ampio di quello della tiratura giornalistica.
Ma il Settecento inglese, con i grandi autori della satira quali Jonathan Swift, Alexander Pope e John Dryden, è morto e sepolto persino nelle antologie scolastiche dove di questi autori non vi è quasi traccia. E non certo per i supposti orientamenti del tal manuale, visto che Pope era un cattolico in terra inglese, Swift un protestante in terra irlandese e Dryden un “trasformista” della politica, adattabile a tutte le antologie. La modernità ha spazzato via la satira come genere letterario, relegandola alla vignettistica di fondo giornale di dissacrante mestiere.
La lente del tempo ha inoltre inevitabilmente allontanato da noi la satira di Swift, ma rimane sorprendentemente vitale per chi volesse cimentarsi non con gli adattamenti scolastici o cinematografici, che la depurano e lasciano solo la favola del meraviglioso con Lillipuziani innocui, ma con il testo autentico nella sua complessità, in particolare con il terzo e quarto viaggio, dedicati all’isola di scienziati e filosofi ed infine alla straniante realtà dei cavalli senzienti e parlanti, gli Houyhnhnms. Irlandese, definito un misogino, Swift diede addosso a tutto e a tutti, con una propensione scatologica e dissacratoria che può generare tanto orrore quanto le vignette di Charlie Hebdo. Ma la nobiltà del genere stesso e il lucido attacco al razionalismo dello scientismo, nonché la satira del malcostume politico, danno una coerenza ai viaggi del dottor Gulliver che non ha paragone con l’esercizio occasionale e consumistico della satira di oggi.
Gulliver nasce inglese, borghese e illuminista, e pertanto certo della perfezione e superiorità di costumi, istituzioni e moralità inglesi, e pertanto della loro umanità, ma “muore” rinnegando l’umanità che lo ha generato; preferisce agli uomini gli Houyhnhnms, i cavalli senzienti e sapienti, anche se fra gli uomini (inglesi) fra cui i cavalli razionali lo esiliano ritenendolo, per il suo aspetto, un non-cavallo, trova solo semplici cavalli con cui scambiare piacevoli nitriti, molto meglio per lui dell’abbraccio della moglie, o dell’odore, per lui disgustoso, del figlio. Meglio quindi morire da cavalli (pur se nell’imitazione goffa e maldestra di Gulliver) che vivere da uomini, o da Yahoos, gli uomini bestiali sottomessi agli Houyhnhnms, e la cui piaga immonda i cavalli senzienti decidono di eliminare attraverso una castrazione di massa?
Tutt’altro. Chi segue i lumi della ragione illuministica finisce per Swift fra le braccia, pardon, fra gli zoccoli dei cavalli; nel loro mondo parole come opinione, dibattito, amore, affezione, scelta e libertà non esistono, e Gulliver fatica a farne intendere il senso ai cavalli senzienti che tanto ammira. Nel mondo della ragione perfetta, non vi è dibattito perché la verità è riconosciuta per ragione, e non per adesione della volontà. La moralità non è libertà, ma strada a senso unico, perché sul bivio, apparentemente, l’opzione “male” non compare.
Il motto dei cavalli è il perfetto So, ergo faccio: il mondo creato è fatto da una parte di eutanasia, matrimoni combinati a scopo eugenetico, dissoluzione dei legami familiari ed amicali, sistema di caste fra cavalli superiori ed inferiori senza alcuna speranza di “mobilità sociale” (perché manca il desiderio stesso dei cavalli più umili di migliorarsi, di “ascendere”), rigetto di Gulliver sulla base del suo aspetto fisico e della sua ragione imperfetta, e dall’altra da violenza, isolamento e brutalità negli Yahoos, il cui destino è l’estinzione di massa tramite castrazione.
Un mondo dettato dalla ragione scientista, semplicemente perfetto. Ma rivoltante per chi legga Swift e si ritrovi in una delle sue opzioni descritte da Swift stesso: “Satire is a sort of glass wherein beholders do generally discover everybody’s face but their own; which is the chief reason for that kind reception it meets with in the world, and that so very few are offended with it” (“La satira è una sorta di specchio nel quale gli osservatori di solito scoprono il volto di chiunque tranne il proprio; il che è la ragione principale per l’accoglienza benevola che ha nel mondo, ed il motivo per cui così pochi sono offesi da essa”).
Nessuna offesa, fino a quando macerie e corpi a brandelli non compongono un orrore che è proprio il mio.