“Le scoperte scientifiche che hanno allungato la vita umana di circa quattro decenni hanno prodotto anche una popolazione in costante crescita di cittadini più vecchi che danno un contributo minimo alla loro società, spendono la maggior parte dei fondi pubblici per la sanità e stanno diventando un grave onere economico per un numero sempre più ridotto di lavoratori che devono sostenere, con le loro tasse e le trattenute per pensione e assistenza sanitaria, gli adulti che invecchiano.
Si stima che nel 2050 un adulto su tre nei paesi sviluppati avrà più di sessant’anni e ci saranno solo due o tre lavoratori attivi che potranno dare un contributo al sostegno di uno dei destinatari più anziani dei fondi pubblici, e questo rapporto non è sostenibile”. Parole dure quelle di Jerome Kagan, professore emerito di psicologia nell’Università di Harvard e pioniere della psicologia dello sviluppo, nel libro “Le tre culture”. Discutere, oggi, della relazione tra scienze naturali, scienze sociali e discipline umanistiche può sembrare solo una dotta disquisizione filosofica fine a se stessa, ma in realtà riguarda i principi stessi del nostro vivere e del modo di affrontare il presente e il futuro. I progressi costanti che le scienze hanno fatto dall’inizio dell’Ottocento a oggi ci hanno portato a pensare che, gradualmente, fossimo in grado di dominare la natura e di introdurre uno sviluppo costante che avrebbe avuto conseguenze positive per tutti. Progressi industriali, scoperte in campo medico, innovazioni tecnologiche, abbattimento dei confini geografici. L’uomo sembrava avere superato tutte le barriere ed essere destinato ad avanzare all’infinito.
Poi però se ci fermiamo a guardare i risultati complessivi, il quadro appare diverso: 2,5 miliardi di persone vivono oggi in totale povertà. Più di quelle che erano nelle medesime condizioni agli inizi dell’Ottocento. Gli abitanti del pianeta, nello stesso arco di tempo, sono passati da un miliardo a 6,5 miliardi. Le differenze tra ricchi e poveri si sono accentuate.
Le persone morte per Aids hanno sostituito quelle morte due secoli fa per vaiolo o tubercolosi, ma il saldo è simile. Le risorse sono in esaurimento e molto spesso si discute della situazione che stiamo lasciando in eredità alle generazioni future. In 150mila anni siamo riusciti a consumare il pianeta Terra da ogni punto di vista più di ogni altra specie vivente. Come uscire da questa situazione? Tornando al dialogo.
Tornando a uno scambio tra la cultura umanista, quella sociale e quella scientifica basato su una maggiore umiltà e consapevolezza dei limiti. Porre al centro della nostra vita i numeri, la misurazione scientifica, la ricerca ci ha consentito di fare enormi passi avanti in molti campi, ma ci ha anche fornito l’illusione di poter dominare la natura e di poter controllare il nostro destino, facendo molti danni.
Negli ultimi duecento anni, le discipline umanistiche sono passate in secondo piano perché non basate su fondamenti scientifici. Medicina, biologia, economia, neuroscienze si sono sostituite integralmente all’umanesimo per andare alla scoperta dell’uomo e dell’universo. La sensazione che si ha oggi, però, è che alla fine quello che abbiamo perso è proprio il rispetto per l’Uomo con la “U” maiuscola.
Stiamo assistendo ad una progressiva spersonalizzazione nella vita quotidiana, nella scuola, nelle aziende, nelle assemblee, nelle famiglie. Dobbiamo fermarci e tornare a pensare, con lo scienziato J.D. Barrow, che “Non esiste formula che possa esprimere tutta la verità, tutta l’armonia, tutta la semplicità. Nessuna teoria del tutto potrà mai farci comprendere ogni cosa“. In breve, dobbiamo dismettere l’arroganza di una pretesa onniscienza per tornare nei confini del nostro essere parte di una realtà che ci travalica e che è infinitamente più grande di noi. Le discipline umanistiche non avranno una base solidamente scientifica, ma spesso sanno raccontare meglio di mille analisi neuroscientifiche cosa sta nascosto nel cuore e nel cervello di una persona. Le sue paure, le sue emozioni, i suoi sogni. Abbiamo un bisogno disperato di un ritorno prepotente dell’etica, di quella consapevolezza diffusa che ci consente di discernere tra quello che è giusto e quello che è sbagliato, indipendentemente dalle nostre ambizioni di voler dominare il tutto e di voler misurare tutto con degli indici che esprimono un freddo numero, ma non quello che ci sta sotto.
Il 18 marzo 1968, in un memorabile discorso all’Università del Kansas, Robert Kennedy diceva: “Il Pil non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia o la solidità dei valori familiari, l’intelligenza del nostro dibattere o l’onestà dei nostri pubblici dipendenti. Non tiene conto né della giustizia nei nostri tribunali, né dell’equità nei rapporti fra di noi. Il Pil non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra compassione né la devozione al nostro paese. Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta“.
Ricominciamo a costruire il domani dall’elemento più prezioso e insostituibile. L’uomo.
(Dedicato a Carmelo Bongiovanni. Un Uomo)