La scuola è iniziata, come ogni anno si riparla di riformarla e sembra che la riforma possa essere solo di tipo produttivo: attaccare il carro-scuola ai cavalli dell’impresa, cioè più inglese e computer. Certo, tanto di cappello se riesce, e se riesce l’impresa dell’assunzione dei precari voluta dal governo Renzi. Ma è davvero tutto qui e basta?
Un osservatore che venisse da un altro pianeta e guardasse la scuola così come è nei paesi occidentali, così la descriverebbe: “I piccoli esseri umani, senza eccezioni, vengono condotti nella prima metà della giornata in ampi edifici e tenuti seduti – salvo brevi periodi pause – dalle 4 alle 6 ore in piccole stanze in cui seguono un apprendistato di circa tredici anni per apprendere nozioni che avranno poi da utilizzare quando inizieranno un impegno lavorativo remunerato, salvo che gli anni seguenti potranno essere di ulteriore studio (università) o di attesa (disoccupazione)”.
Paola Mastrocola (Togliamo il disturbo, 2011) docente e scrittrice, fa un ritratto cupo sul livello di apprendimento (“I ragazzi di oggi sono di una povertà lessicale sconcertante”) e culturale (“Questa generazione a scuola sì ci va, ma a dispetto della sostanza stessa della scuola, che sarebbe il fatto di dover studiare”) dei giovani. Spiega che dalla scuola manca il criterio di fatica e applicazione, così come dai giovani manca il senso del sacrificio ma troppo spesso anche quello – quando sarebbe opportuno – di una sana vergogna non tanto dell’insuccesso (fallire è umano), quanto della dimostrazione di mancanza palese e sfacciata di impegno.
Il sistema scolastico occidentale sembra fatto di “formazione per” e poco di “formazione di”. Dovrebbe incrementare allora un punto di vista pediatrico, cioè deve imparare a guardare al bambino non come un adulto in formazione ma come un soggetto con peculiarità proprie da valorizzare, approfondire, scoprire, far innamorare di sé, del mondo, degli altri. Serve un’ecologia della scuola a misura di bambino-ragazzo, non solo a misura di adulto! Invece ancora siamo lontani da questo traguardo.
Pensiamo agli spazi e ai tempi: far iniziare la giornata quando il corpo fisiologicamente dormirebbe ancora a lungo non è ecologico e pediatrico. E’ certamente a misura di società del lavoro dei genitori che ormai non sanno a chi lasciare il piccolo. Così come far passare le ore dentro aule in cui per forza di cose gli occhi si stancano nel momento del loro sviluppo (il cristallino si riposa solo quando guarda oggetti a distanza di almeno otto metri) non è a misura pediatrica; così come far durare le lezioni per tre quarti dell’anno, spesso con rientri pomeridiani legati alla comprensibile ma non ecologica esigenza delle famiglie in cui i genitori sono fuori casa a lavorare. In questo guardiamo alla recente riforma inglese, in cui l’orario di inizio delle lezioni in alcune località è spostato in avanti permettendo ai ragazzi di entrare più tardi, molto più tardi delle fatidiche 8,20.
Perché esistono dei ritmi fisiologici che si devono rispettare. L’American Academy of Pediatrics ha dato delle indicazioni sui limiti e i rischi del contatto eccessivo con i computer, sui vantaggi dell’educazione ad una sana alimentazione e a una pratica sportiva. Non ignoriamoli.
Pensiamo ai contenuti: storia, geografia e matematica, certo, ma c’è altro. La scuola dovrebbe rifondarsi mostrando attenzione alle mille forme creative del lavoro manuale (che nessuno vuole più fare perché così gli abbiamo insegnato); usando il web ma spiegando che internet è uno strumento di lavoro, non un compagno di giochi; insegnando quello che oggi è censurato come la voglia di famiglia e di genitorialità; stigmatizzando lo spreco di risorse ambientali e umane, valorizzando la propria cultura su un’esterofilia spacciata per cosmopolitismo.
Ma riformare luoghi e contenuti non basta: bisogna sapere cosa si vuole dalla scuola, non solo “come si fa” la scuola. Cosa è la scuola: una baby-sitter? Un centro di formazione-adulti? O un luogo dove si incontrano persone per imparare ad essere più se stessi (e non solo “bravi e produttivi consumatori”)? Ma non si incontra la realtà se non si incontra una persona, un maestro, in cui questo approccio adulto alla realtà è in parte avviato o compiuto. E quanto coincide l’istruzione di oggi o quella computerizzata e a distanza che alcuni auspicano, con il contatto con un maestro? E quanto sono aiutati i professori ad essere – come tanti di loro vogliono e ancora fortunatamente si ostinano ad essere – non solo insegnanti di dettagli tecnici ma docenti, cioè capaci di introdurre alla totalità del reale? Non basta accontentarsi di una scuola disegnata sui metri degli adulti e del mercato, cioè una scuola supplente della famiglia in quanto baby-sitter, istruttrice, forgiatrice di affettività, in un mondo in cui i genitori sono sempre più costretti (dal punto di vista lavorativo ma anche come cultura) a vivere in un universo distante da quello dei figli.
Riflessione finale: la scuola non si salva riformando la scuola… ma la società non si salva se non si riforma la scuola. Insomma, la riforma della scuola è un’urgenza sociale fondamentale, non fine a se stessa perché non isolata dal mondo; e non può essere fondata solo su riforme tecniche, ma su una scuola disegnata a immagine di bambino e non calcolata sugli orari e sui tempi dei genitori e sulle esigenze future e utilitaristiche del mercato.