Ci sono gruppi di ricerca in Italia che ottengono riconoscimenti e crediti a livello internazionale senza che i nostri riflettori nazionali riescano a inquadrarle e a dare loro il risalto mediatico che meriterebbero.
È il caso della équipe del reparto di Dermatologia dell’Ospedale degli Infermi di Biella guidata da Cesare Barbera che ha messo a punto una metodologia innovativa per la ricostruzione funzionale della palpebra (tarso e congiuntiva) usando tessuto venoso prelevato dagli arti dello stesso paziente.
Il metodo, primo a livello mondiale, è in uso ormai da dieci anni su pazienti anziani affetti da tumore alla palpebra, con ventisette casi tutti riusciti con esiti largamente positivi ed è stato applicato ultimamente con la stessa procedura anche su un paziente da trauma. Il riconoscimento internazionale è stato confermato con la pubblicazione sull’autorevole rivista Ophthalmic Plastic and Reconstructuve Surgery (vol 24 n. 5 pag 352-356) dell’articolo “Reconstruction of the Tarsus Conjuntnctival Layer Using a Venous Wall Graft”, firmato dallo stesso Barbera e dai medici Roberto Manzoni, Lucio Dodaro, Monica Ferraro e Paolo Pella.
Abbiamo chiesto a Barbera di spiegarci di cosa si tratta.
In che cosa consiste la metodologia da voi collaudata e in quali casi si può applicare?
L’originalità della nostra metodica risiede nell’impiego di una lamina di parete venosa per ricostruire l’impalcatura fibrosa della palpebra (tarso) ed il suo rivestimento mucoso (congiuntiva), in seguito ad intervento chirurgico demolitivo per tumore maligno o perché distrutti o danneggiati per incidente traumatico. La lamina venosa che viene innestata è prelevata da una vena superficiale di un arto del medesimo paziente (trapianto autologo).
La nostra casistica personale annovera ad oggi 27 casi: di questi 26 oncologici e uno soltanto post-traumatico per perdita di tessuto palpebrale da morso di cane.
Quali i vantaggi rispetto ai tentativi precedenti e quale il grado di successo?
La ricostruzione a tutto spessore della palpebra comporta il reintegro di due strati: uno esterno (muscolo-cutaneo) e l’altro interno (tarso-congiuntivale). Lo strato esterno viene di solito facilmente ricostituito ricorrendo ai tegumenti limitrofi alla perdita di sostanza palpebrale. Per la ricostruzione della lamella tarso-congiuntivale, la cui architettura non si ritrova nell’organismo che a livello delle palpebre, sono state invece proposte nell’ultimo secolo parecchie strategie chirurgiche incentrate –di volta in volta- sull’impiego delle palpebre residue, della sclera, della mucosa del palato e infine da innesti di varia composizione. L’innesto più utilizzato è quello condro-mucoso (cartilagine più mucosa) prelevato o dal naso (setto nasale o turbinati) oppure dalla bocca utilizzando la mucosa orale al di sotto della quale sia stato precedentemente intascato un frammento di cartilagine dell’orecchio.
La mutilazione dell’organo donatore (naso, orecchio, guancia) e il disagio dell’intascamento al cavo orale sono i limiti di queste metodiche. Inoltre la palpebra ricostruita risulta rigida e di spessore eccessivo, in conseguenza del notevole spessore delle due componenti, mucosa e cartilagine, tra le quali si interpone abbondante una robusta cicatrice.
La nostra metodica, il cui grado di successo ad oggi è del 100%, apporta i seguenti vantaggi:
1) La palpebra ricreata ricalca assai fedelmente, per spessore, architettura anatomica e funzionalità, la palpebra originale; mentre con le metodiche precedenti il risultato era spesso inficiato dall’eccessiva rigidità e spessore della ricostruzione.
2) Si esegue in un solo intervento, mentre alcune metodiche precedenti richiedevano più sessioni chirurgiche a distanza di 2-4 settimane l’una dall’altra e talvolta era richiesto un periodo di simblefaron chirurgico (chiusura delle palpebre mediante cucitura temporanea).
3) Non comporta mutilazioni a strutture anatomiche “nobili” (naso-orecchio-bocca) poiché il prelievo di un frammento di vena superficiale non implica alcun deficit morfo-funzionale.
Ci sono possibili punti critici o situazioni nelle quali l’applicazione risulta problematica?
Non escludo criticità: in teoria i soggetti con vene superficiali poco evidenti, con pareti sottili e fragili possono essere “clienti difficili”. Nella nostra esperienza ci siamo più volte trovati di fronte a simili soggetti, ma finora siamo sempre riusciti comunque a reperire segmenti di vena adeguati alle nostre esigenze chirurgiche.
La metodologia può essere estesa ad altre situazioni?
Essendo la nostra équipe impegnata nel settore dermochirurgico oncologico, il venous wall graft è stato messo a punto per la ricostruzione a tutto spessore della palpebra dopo asportazione di tumori maligni; ma la metodica può essere impiegata in tutte le situazioni in cui sia andata distrutta in parte o in toto la lamella tarso-congiuntivale e/o l’apparato di sospensione della palpebra (legamenti tarsali). Si possono quindi prospettare utilizzazioni anche in campo traumatologico o nella correzione di malformazioni congenite.