“Ma funzionano ancora?”: questa è la domanda che sorge spontanea ogniqualvolta le agenzie battono qualche notizia sulle navicelle Voyager. Eh già, perché queste sonde spaziali sono operative da ben 36 anni, un vero record che ha dell’incredibile, soprattutto se consideriamo l’ambiente ostile e, di fatto, ignoto nel quale stanno viaggiando. Lanciate nell’agosto e settembre del 1977, le due navicelle Voyager 1 e 2 avevano come obiettivo principale quello di “visitare” i pianeti Giove, Saturno, Urano e Nettuno, fotografandoli da vicino e raccogliendo preziosi dati scientifici sulla natura di questi giganti gassosi e dei loro satelliti. L’orbita di Voyager 1 era indirizzata verso Giove e Saturno, mentre Voyager 2, dopo averli sfiorati come la sua compagna, era stata indirizzata verso Urano e Nettuno. Tutti ricorderanno le stupende immagini della variegata superficie di Giove e la filigrana degli anelli di Saturno che, osservati da angolature inedite, svelavano insospettabili dettagli. Voyager 2 poi, durante il suo “fly-by” a Urano e Nettuno, mostrava che anche questi giganti possiedono degli anelli meno evidenti, ma simili a quelli di Saturno.
Quando la missione principale si concluse con successo con la visita di Nettuno da parte di Voyager 2 nel 1989, le due navicelle si trovavano rispettivamente ad una distanza di 40 e 31 U.A. dal Sole (l’U.A., Unità Astronomica, corrisponde alla distanza media della Terra dal Sole, circa 150 milioni di chilometri) e naturalmente continuavano a procedere verso la periferia del nostro Sistema Solare. Infatti l’energia impartita loro, sia dai razzi lanciatori, sia dalle manovre di “fionda gravitazionale” che sfruttando il passaggio ravvicinato ad uno o più pianeti fanno aumentare la loro velocità, era sufficiente per inserirle in un’orbita di “fuga” dal Sistema Solare. In effetti la missione Voyager sfruttò una fortunata situazione di allineamento dei pianeti esterni, che si verifica circa ogni 175 anni e che costruisce una sorta di effimera “autostrada” spaziale percorrendo la quale le navicelle acquistano velocità invece che rallentare. Basti pensare che in condizioni normali il viaggio verso Nettuno avrebbe richiesto ben 30 anni invece dei 12 effettivamente impiegati! È giusto ricordare che lo scienziato che per primo suggerì alla Nasa di sfruttare queste scorciatoie naturali (in quel caso per la missione Mariner 10 a Venere e Mercurio) fu Giuseppe “Bepi” Colombo, professore di Meccanica Celeste all’Università di Padova, di cui l’anno prossimo ricorre il 30o anniversario dalla scomparsa.
A quel punto, visto che gli strumenti di bordo e i sistemi di trasmissione funzionavano ancora perfettamente, la Nasa decise di aumentare il ritorno scientifico delle navicelle Voyager, “inventando” una nuova missione (VIM – Voyager Interstellar Mission), dedicata allo studio del mezzo interstellare o, più precisamente, alla determinazione dei confini fisici del nostro Sistema Solare. È chiaro che lungo le orbite spaziali non ci sono cartelli indicatori simili a quelli che incontriamo viaggiando in automobile e passando da una regione all’altra, ma non ci sono neppure regole universalmente accettate dagli astronomi per definire fin dove si estenda il dominio del nostro Sole. Una delle possibilità, molto ragionevole, che effettivamente le navicelle Voyager stanno esplorando, è quella di definire il confine là dove il cosiddetto “vento solare” diventa così tenue da confondersi con il mezzo interstellare. Il vento solare è costituito da elettroni e protoni energetici, emessi dalle regioni più esterne dell’atmosfera solare, la “corona”.
Questo flusso di particelle si propaga con velocità diverse, da 400 a 750 km al secondo e la massa eiettata è di alcuni miliardi di tonnellate all’ora: una quantità che ci sembra impressionante, ma che in realtà non rappresenta che una frazione minima, quasi insignificante, della massa totale del Sole. Per comprendere il comportamento del vento solare e capire perché è stato scelto come un indicatore di “occupazione territoriale” da parte della nostra stella, bisogna ricordare che esso non è costituito solo da particelle elettricamente cariche (elettroni e protoni), ma anche da un campo magnetico le cui linee di forza sono indissolubilmente legate alle particelle stesse. I fisici chiamano questa miscela di gas ionizzato e campo magnetico “plasma” perché si comporta come un vero e proprio fluido e come tale, quando incontra altro plasma, di origini e caratteristiche fisiche diverse, crea “vortici” e “onde d’urto”, soprattutto se la sua velocità è supersonica rispetto al mezzo circostante. È quanto avviene, per esempio, nell’incontro del vento solare con la ionosfera e magnetosfera terrestre che, fortunatamente per noi, crea una specie di barriera (un’onda d’urto stazionaria) che devia il vento solare facendolo fluire oltre la Terra impedendo a questo di arrivare sulla superficie, se non a latitudini polari dove l’impatto crea le stupende “aurore boreali”.
Si suppone che qualcosa di simile avvenga quando il nostro vento solare, superati tutti i pianeti, entra nel vero e proprio spazio “interstellare”. Anche quest’ultimo è costituito da plasma, molto tenue e con velocità media nulla rispetto allo spazio stesso (con una metafora marina, diremo che siamo in una situazione di “vento debole di direzione variabile”). L’interazione del vento solare con il mezzo circostante crea una specie di “bolla”, detta eliosfera, oltre la quale il vento si confonde con il mezzo, perdendo quindi la sua identità. L’analogia con la magnetosfera terrestre, che conosciamo bene, ci permette di prevedere la struttura della superficie della “bolla”. Innanzitutto l’impatto del vento con il mezzo interstellare crea un fronte d’urto detto “terminale”: lì il vento rallenta la sua velocità da ipersonica a subsonica. Dal momento che le navicelle Voyager hanno a bordo strumenti che misurano il flusso e la velocità delle particelle cariche e l’intensità del campo magnetico, esse possono determinare l’istante di attraversamento del fronte e quindi la distanza dal Sole di questa superficie di separazione.
In effetti esse sono già transitate per il fronte terminale nel dicembre 2004 (Voyager 1) e nell’agosto 2007 (Voyager 2) quando si trovavano rispettivamente alla distanza di 94 e 84 Unità Astronomiche (date e distanze diverse non devono sorprendere perché le navicelle seguono traiettorie diverse e la “bolla” è solo approssimativamente una sfera). Superato il fronte terminale, esse stanno ora viaggiando in una zona chiamata “heliosheath”, mantello solare, nella quale il plasma proveniente dal Sole è ancora distinguibile, anche se non più supersonico. Non è facile prevedere quanto sia spesso questo “mantello” e infatti l’interesse scientifico per le Voyager è ora focalizzato a determinare il successivo passaggio alla “eliopausa”, la zona dove le particelle solari diventeranno indistinguibili da quelle provenienti dalle altre stelle vicine: il vero confine del nostro sistema. Si stima che le navicelle entrino nella eliopausa dopo un periodo di 10-20 anni dal transito per il fronte terminale, quindi dovremmo essere prossimi all’annuncio fatidico! Diciamo subito però che non sarà semplice stabilire con certezza quest’ultimo passaggio: i flussi di particelle sono sempre più tenui e le misure da compiere sempre più delicate.
A questo si aggiunga che i sistemi di bordo stanno facendo miracoli per sopravvivere e i tecnici della Nasa altrettanto per mantenere i contatti e programmare le operazioni di bordo. Basti pensare che la memoria del computer di bordo è di soli 1.5 kByte (la tecnologia è quella degli anni ’70!) e l’ormai scarso propellente di bordo va centellinato per mantenere l’antenna ad alto guadagno costantemente puntata verso la Terra; e oggi il viaggio di andata e ritorno di un segnale supera le 30 ore! A quelle distanze cosmiche (circa 125 e 102 U.A.), il Sole appare come una piccola stellina e non è pensabile utilizzarne la radiazione per convertirla in energia elettrica usando pannelli solari: in questo caso la produzione di energia è affidato a delle pile atomiche in miniatura, che trasformano in elettricità il calore prodotto dal decadimento nucleare di radioisotopi.
Si prevede che i sistemi vitali – le pile e il propellente – si esauriranno verso il 2020 e si spera quindi che entro quella data il fatidico traguardo del “confine” venga raggiunto. Naturalmente le navicelle, anche quando non saranno più in grado di comunicare con la Terra, continueranno il loro viaggio interstellare e si possono prevedere già verso quali stelle si stanno indirizzando. Proprio pensando a questo viaggio verso l’ignoto, la Nasa, con la consulenza dello scienziato e divulgatore Carl Sagan, collocò a bordo delle due navicelle un messaggio rivolto a ipotetici extraterrestri: un disco di rame dorato contenente immagini, brani musicali e suoni di varie zone e tradizioni del nostro pianeta. Le probabilità che il messaggio sia effettivamente raccolto da qualcuno sono evidentemente molto remote, ma ciò non toglie valore all’aspirazione dell’uomo, naturale e sempre più plausibile, riassunta in quel piccolo dischetto dorato, di non essere il solo nell’universo a meravigliarsi della sua bellezza.