Uno degli ultimi “cuori intelligenti”, come direbbe Alain Finkielkraut. E’ George Steiner, tra i più grandi intellettuali europei viventi. A lui è dedicato lo studio di Cecilia Ricci “Leggere Babele: George Steiner e la vera presenza del senso”.
Che cosa rende Steiner un critico diverso dagli altri? Perché è stato oggetto della tua ricerca?
George Steiner è uno degli ultimi “cuori intelligenti”, come direbbe Alain Finkielkraut. In tutte le sue opere interroga i giganti della letteratura attraverso lo scavo profondo dell’indagine filosofica e, così facendo, lascia emergere, meglio di qualsiasi altro autore, le grandi domande sul senso dell’esistenza tipiche di ogni uomo. Amore sconfinato per la letteratura, profondità della ricerca filosofica e onestà umana ed intellettuale: difficilmente, oserei dire quasi mai, si incontrano tutte insieme in una stessa persona. Per questa sua inedita “completezza” è considerato all’unanimità tra i più grandi intellettuali europei. Eppure questa sua universalità è stata anche un limite. Infatti, sebbene Steiner sia letto, non è altrettanto studiato dentro le mura accademiche: i letterati “puri” ne sono affascinati ma spesso non colgono le profonde implicazioni del suo pensiero; i filosofi “puri” lo snobbano perché “colpevole” di essere un critico letterario (e non un filosofo) e perché privo di rigore teoretico. In realtà tutti loro vorrebbero essere George Steiner…
Il tuo libro si intitola Leggere Babele: George Steiner e la vera presenza del senso. Steiner in Errata compie un’interpretazione positiva del racconto di Babele: la molteplicità delle lingue è una ricchezza. Che tipo di concezione del fatto letterario consente questa esperienza positiva?
Ciascuna lingua dà voce al modo di “sentire” di una civiltà esprimendo l’identità di un popolo. Per Steiner nell’atto di traduzione viene fatta esperienza diretta del nocciolo “privato” del linguaggio, cioè di quella porzione di senso che non può essere traducibile e trasportata da una lingua all’altra. Ciò significa che non sarà mai possibile una decodifica esatta del messaggio testuale perché ciascuna lingua decide di illuminare porzioni di senso diverse. Ma Babele è positiva non solo perché ogni sistema linguistico riflette l’anima di un popolo, ma anche perché ogni lingua è dotata di una grammatica del tempo futuro e del condizionale che sfida la realtà presente ostile e piena di fallimenti. Il futuro e il condizionale alimentano la speranza e ridisegnano la realtà con nuove possibilità di vita. In questo senso la lingua è l’arma per combattere la finitudine umana, proiettandosi oltre la morte.
Che significa che in ciascuna opera d’arte c’è una “presenza”? A cosa si riferisce Steiner quando parla di “Vere Presenze”?
Di fronte ai grandi classici, ovvero alle grandi opere letterarie, artistiche e musicali, ciascuno di noi fa un’esperienza unica. Steiner dice che «il testo, la struttura musicale, il quadro (…) soddisfano dei bisogni che non conoscevamo. Aspettavamo qualcosa e non sapevamo che esistesse, che ci potesse completare». Si tratta di quella che Steiner definisce la “scossa della corrispondenza”, quell’incontro con qualcuno o qualcosa che colma la nostra inconsapevole attesa.
Per spiegare la carnalità e l’eccedenza dell’incontro con la “vera presenza” che abita le grandi opere, il genio di Steiner, ebreo ed agnostico, ricorre alla categoria cristiana dell’Annunciazione: dopo «l’esperienza della “visitazione” non è più possibile abitare quella casa come prima. Un’intrusione potente ha spostato la luce».
La postmodernità letteraria recupera in qualche modo la ricerca del senso?
La postmodernità letteraria, nella sua versione decostruzionista, rappresenta il bersaglio costante di Steiner. Nell’arco di pochi anni la teoria letteraria è passata dalla reificazione formalizzante del linguaggio (strutturalismo) — che in nome della scientificità studiava il testo a partire da un ambiente asettico — ai giochi irresponsabili del decostruzionismo di Derrida che ha sostituito il significato con il principio dell’insignificanza, proclamando l’evaporazione totale del senso. Quella di Derrida e Barthes è una vera e propria poetica dell’assenza, una celebrazione del non sense. È l’altro volto di Babele, quello che emerge dalla critica al post-strutturalismo: la Babele come insieme caotico di frammenti testuali resi vuoti e insignificanti. Eppure il decostruzionismo è per Steiner una sfida cui non possiamo sottrarci, perché rappresenta il volto amaro e autentico del postmoderno. Il genio di Steiner comprende che sarebbe sbagliato tentare di rispondere al postmodernismo articolando un’altra teoria. È necessario invece fornire una narrazione dell’esperienza del senso: la fenomenologia estetica dell’incontro con la “vera presenza” è un tentativo di risposta.
Steiner parla de “la nostalgia dell’assoluto”. È questo ciò che distingue un classico di letteratura da un’opera che non lo è?
Esattamente, per Steiner tutti i grandi classici sono segnati dalla “sete” di Dio. L’intero itinerario speculativo ed esistenziale di Steiner è volto a mostrare che la grande arte nasce dal “problema di Dio”, da quello della sua esistenza o non esistenza. Nella tensione a chiarire questo punto risiede la nostalgia per l’assoluto. Le grandi opere della tradizione umanistica avevano un’auctoritas ed esercitavano un fascino educativo immortale, perché mostravano, attraverso una fitta rete di rimandi simbolici e mitologici, la presenza di un significato ulteriore che ponesse ordine nel caos degli eventi apparentemente insensati dell’esperienza umana. Come mostra perfettamente Steiner in La morte della tragedia, il genere tragico affondava le radici in una “mitologia” religiosa fatta di valori cristiani e antichi che rappresentavano la prospettiva comune dalla quale leggere l’opera. L’ottimismo razionalistico del 700, mettendo in discussione il polo teologico, ha aperto la crisi del genere tragico. Con Cartesio, Newton e Voltaire «le stelle sono diventate irraggiungibili» e si interrompe la continuità tra ordine terreno e divino.
Qual è il segreto della “grammatica della creazione”? Quali sono le regole che la reggono?
Ogni grammatica è creativa perché, modellando i testi di riferimento di una civiltà, contribuisce a diventare portavoce della coscienza collettiva del popolo. Ogni sistema linguistico è creativo perché, attraverso i suoi frutti (le opere), genera una serie di mondi possibili e di interpretazioni sulla realtà e sul tempo. Ecco perché Steiner è perfettamente d’accordo con le parole di Roman Jacobson: “Per conoscere la grammatica della poesia è necessario conoscere la poesia della grammatica”.