La vicenda catalana è materia ancora troppo incandescente per consentire di esprimere un giudizio complessivo. Non è così, invece, per la situazione generale dell’Europa, nella quale fenomeni comparabili a quello iberico sono riscontrabili in diversi Stati e permettono di delineare alcune linee comuni per l’intero continente. Le spinte separatiste della Scozia — e dell’Irlanda del Nord dopo la Brexit — così come il risultato del referendum sull’autonomia del Veneto, sono fenomeni ascrivibili a una dinamica in atto ormai da diversi anni, di cui sono distinguibili alcuni elementi cardine.
Il primo elemento è la persistenza dell’elemento locale delle Piccole Patrie ossia di quelle “nazioni senza Stato”, più volte sconfitte nelle peripezie della storia, ma in grado di riapparire a distanza di tempo: negare, come alcuni commentatori hanno fatto, una differenza tra Catalogna e Castiglia, dal punto di vista giuridico, linguistico e sociale, significa negare fenomeni plurisecolari, le cui conseguenze sono riscontrabili ancora oggi.
Il secondo elemento è anch’esso legato alla persistenza, ma questa volta dal punto di vista economico: Catalogna, Lombardo-Veneto, Scozia sono tra le regioni europee più ricche d’Europa e non solo da ieri. Non si faccia l’errore di confondere le condizioni materiali dei contadini di ciascuna di queste tre regioni — soprattutto nelle loro zone montane, tutte terre di emigrazione — con la ricchezza di città mercantili come Barcellona, Glasgow e Venezia, durante l’età moderna e contemporanea. L’origine della ricchezza può forse essere cambiata — si pensi, ad esempio, alla scoperta del petrolio nel Mare del Nord o alla crisi del porto di Venezia rispetto al boom delle piccole e medie imprese nel Triveneto del miracolo economico —, non è cambiata la centralità economica di queste zone, tutte punto di contatto tra Europa, Asia (Venezia), Africa (Barcellona) e Americhe (Glasgow). La geografia non può essere cambiata, possono essere cambiate le condizioni tecnologiche dei flussi commerciali, come ha recentemente insegnato la “nuova via della seta”, destinata a ridare centralità a Venezia nel commercio internazionale.
In realtà, le spinte autonomiste e secessioniste sono la conseguenza della crisi irreversibile dello Stato nazione così come sviluppatosi a partire dalla Rivoluzione francese e realizzatosi nei duecento anni successivi, attraverso un meccanismo che potremmo riassumere in questi termini: lo Stato chiedeva agli abitanti del proprio territorio di uniformarsi a un modello giudicato efficace alla conservazione dello Stato stesso e in cambio assicurava ai cittadini un welfare di cui tutti potevano godere. In altri termini, lo Stato-nazione dell’età industriale aveva bisogno di una popolazione numerosa, alfabetizzata e istruita, in modo da far funzionare il sistema industriale che solo poteva permettere allo Stato di sopravvivere nelle contese con gli altri Stati. In cambio forniva istruzione per tutti, un sistema sanitario e previdenziale, investimenti pubblici in infrastrutture e abitazioni. Tale prospettiva, nata con gli eserciti di massa dell’età napoleonica e definitivamente acquisita con la corsa al controllo dei mercati nel periodo dell’imperialismo, fu ulteriormente consolidata dalle due guerre mondiali, in cui la superiorità industriale fece la differenza tra Stati Uniti e Asse italo-nippo-tedesco.
Oggi non è più così: il sistema di produzione è ormai delocalizzato e la superiorità di uno Stato è fornita essenzialmente dalla sua capacità di innovazione in campo scientifico e tecnologico, che richiede risorse enormi, spesso al di là delle sue risorse interne. Si è così creato uno iato tra le esigenze dello Stato e le sue capacità di ripagare i cittadini con un welfare adeguato. In altri termini, è aumentato il divario, all’interno di ogni Paese, tra zone competitive e zone non competitive, con le une che sono di ostacolo alle altre, a seconda delle situazioni contingenti.
La soluzione proposta dai fenomeni secessionisti degli ultimi decenni può apparire semplice, egoistica o velleitaria. Al contrario, essa è basata su una domanda necessaria e su un’altrettanto necessaria risposta: qual è, oggi, il livello territoriale ideale che consente di assicurare un welfare efficiente, partecipato, in grado di favorire lo sviluppo del medesimo territorio?
In Europa esiste una risposta che funziona da circa duecento anni, tempo sufficiente per affermarne la durabilità e sostenibilità: la Confederazione elvetica. Lo studio delle modalità con cui ogni Cantone si amministra, senza mai dimenticare la necessità di mantenere i rapporti con il resto della Confederazione, nella consapevolezza che soltanto nel vincolo federale possono coesistere unità e diversità, costituisce la miglior risposta all’impasse catalana. Tra indipendentismo ad oltranza e neocentralismo imposto con la violenza esiste una soluzione, ma per raggiungerla occorre agire in fretta, perché, come in tutti i fenomeni storici, esiste un tempo per la federazione e un tempo per la secessione. Persa l’occasione, l’esito non potrà che essere radicale ed estremo.