Il tema del cambiamento dei paradigmi di insegnamento in relazione alle trasformazioni della società occupa, forse eccessivamente, molte delle discussioni sulla scuola. In una recente intervista, in particolare, Giovanni Biondi (presidente di Indire) offre queste spiegazioni al calo di motivazione che si registra negli studenti:
“Il modello scolastico italiano è nato con un obiettivo e una popolazione che non esistono più. Si trattava di traghettare una massa di analfabeti verso competenze di base: leggere, scrivere, far di conto. Lo si è fatto con un modello tayloristico, derivato da quelli ottocenteschi, poco costoso e molto semplice, improntato sulla lezione frontale dove un insegnante spiega e un gruppo di persone ascolta. Questo ha determinato gli spazi delle scuole: una cattedra (magari su un piedistallo) e tanti banchi. Oggi questo non funziona più. […] Siamo nel mezzo di un periodo di crisi e cambiamento. I giovani di oggi sono poco motivati al successo scolastico”.
L’articolo offre numerosi spunti interessanti, ma quel che più mi importa qui è l’esplicita (e ormai poco innovativa) denigrazione della cattedra e del banco come modelli superati, in favore di nuovi spazi e relazioni educative, quelli sì moderni — denigrazione cui si aggiunge, sempre e comunque, una frecciatina al “sapere”, fino a pochi anni fa al centro dello scambio educativo, ma che oggi deve necessariamente e progressivamente essere sostituito dall'”apprendimento”.
Così mentre mi domandavo se esistesse un modo di “difendere” la tradizione che non fosse in opposizione a uno sguardo aperto ai cambiamenti, mi sono accorto, imbattendomi in un passo interessante di Olivier Reboul, che la mia stessa domanda tradiva una premessa non verificata: ossia che tradizione e cambiamento siano in antitesi. Che siano, cioè, secondo il modello progressista/avanguardista, l’uno la morte dell’altro: l’uno il superamento dell’altro. Ma la tradizione non può che essere per sua natura futurista, altrimenti non sarebbe arrivata fino a noi! E non sto parlando di “contenuti” ma anche di “metodi”.
Il grande maestro di retorica Olivier Reboul ci offre un paradigma che può far chiarezza e orientare i tentativi di “modernizzare” la didattica riaffondando le radici nella nostra tradizione umanistica: comprendere la natura “retorica” dell’insegnamento (dove con retorica si intende la nobile disciplina della persuasione a credere, non la tecnica del sofismo). Dice, nel suo famoso (quanto ignorato) Introduzione alla retorica, che “quel che oggi si chiama ‘trasposizione didattica’ fa parte della retorica; insegnare una materia significa in effetti darle una chiarezza, una coerenza che essa non ha di necessità in quanto scienza”. E a coloro che per ottenere “dialogo e cooperazione” credono basti abbassare e rimpicciolire la cattedra alla posizione e alle dimensioni del banco, Reboul ricorda che la metafora che descrive le aspirazioni di un insegnante è quello contraria: alzare e allargare il banco alla posizione e alle dimensioni di una cattedra: “il vero professore non dissimula mai la sua retorica; al contrario: egli insegna i procedimenti retorici che permettono di insegnare e conduce così i suoi allievi a padroneggiarli. L’insegnamento è dunque una relazione asimmetrica che lavora alla propria abolizione, affinché l’allievo diventi se possibile pari al maestro. In ciò sta la giustificazione del ‘potere didattico’”.
In effetti quanto è ridicola l’immagine di un insegnante intento a rincorrere le motivazioni degli studenti; quanto è, invece, vitale quella, non opposta, ma più ampia, di un uomo motivato che si offre come modello, non di bellezza o successo (soprattutto economico, sigh!), ma di una conoscenza così radicata e significativa in lui, da portarlo a offrirla, secondo i percorsi più adeguati per essere compresa e gustata, ai suoi studenti.
Solo prendendo in considerazione l’asimmetria che, per abolirsi, deve sussistere, si può allora leggere in senso non autodistruttivo questa similitudine di Biondi: “I ragazzi di oggi sono abituati a modificare i propri comportamenti con i videogiochi, dove si impara sbagliando: ecco, questo modello deve essere in parte riprodotto dalla scuola”. In effetti il modello scuola-videogioco ha affascinato molti docenti, ma forse più che per le sue ragioni cognitive (“imparare sbagliando”) per la sua autorizzazione al lassismo: voi giocate, io faccio acquisti su Amazon (fra parentesi: in quanto a innovazioni tecnologiche anche il modello del prof che legge il giornale in classe è superato). Ma la metafora si può interpretare anche in modo virtuoso: quale interesse (con annesse motivazioni) susciterebbe negli studenti scoprire che il video-gioco lo ha progettato il professore, e che ciò che offre loro è un sapere in grado di fargliene costruire di più belli?