Non è un caso che nei commenti organizzati negli studi televisivi su ciò che stava accadendo in occasione dell’elezione del presidente della Repubblica sia stato chiamato Achille Occhetto per riflettere insieme ad altri interlocutori su ciò aveva potuto produrre una catastrofe così inaudita come quella che sta attraversando il Pd e la sinistra italiana. Anche a me ciò che sta accadendo in questi mesi di aprile e maggio ricorda il senso di smarrimento che provai negli anni ’89-’90. Ritornano i fantasmi di quel periodo di sofferenza e sconforto. Questo collegamento spontaneo e immediato tra la fine del Pci e l’annichilimento attuale dell’ultima formazione politica che sembrava conservarne qualche traccia mi fa avvertire il senso della vera fine di un’epoca, l’epoca in cui per milioni di uomini la parola comunismo aveva rappresentato anche il sogno di una vita più umana e più felice.
Mi chiedo se ciò che sta accadendo oggi abbia un qualche rapporto con la situazione che abbiamo vissuto tra l’89 e il ’92. Per certi versi ciò che è accaduto di recente è molto più radicale e profondo della situazione determinata dalla crisi dell’89. Nell’89 l’esperienza pratica di ciò che era stata la militanza politica nel Pci apparteneva ancora ai vissuti della maggioranza dei cittadini. Persino dopo il cambio del nome nel popolo della sinistra si erano mantenute alcune abitudini di discussione e di convivialità ed erano nate nel paese molte associazioni Berlinguer che provavano attorno a questo nome simbolico a ricreare l’unità fra i compagni e la consapevolezza di dover affrontare una nuova fase della lotta sociale.
Oggi quella storia è totalmente cancellata e solo gli anziani come me possono permettersi di ricordarla. Non c’è più nessuna realtà sociale che possa essere ricondotta a una pratica di amicizia e fraternità come quella che si è sperimentata negli anni del passato ormai remoto, quando le manifestazioni operaie arrivavano a Roma non per sfasciare vetrine e urlare odio e vendetta verso qualcuno, ma per ricordare a tutto il paese che una forza compatta e decisa continuava a rivendicare un’altra politica economica verso i lavoratori e una più giusta distribuzione della ricchezza del paese.
Se interpellavi qualcuno dei manifestanti del corteo operaio non avresti mai sentito le risposte di un grillino, perché nessuno era abituato ad indicare nella casta politica in generale il nemico da distruggere e abbattere. Tra lo stile della protesta comunista e della protesta fascista c’era una differenza palpabile già sul terreno antropologico. Nelle manifestazioni del Pci non c’era il collante dell’odio a unificare tutte le sofferenze individuali, ma la speranza politica di costruire un’altra società. Lo stato d’animo di chi protestava non era il rancore distruttivo, ma la fiducia nella forza persuasiva delle proprie ragioni.
Ricordo bene che Berlinguer, anche dopo i successi elettorali, invitava i compagni a mantenere un atteggiamento di orgogliosa serenità e di non manifestare mai intolleranze e aggressività verso chi non condivideva i nostri progetti di riforma. Oggi invece paradossalmente anche i rivoltosi che vogliono abolire tutte le forme istituite della democrazia esprimono l’individualismo arrogante di Stirner che celebrava l’egoistica autoaffermazione come l’unica rivoluzione possibile in un mondo di mediocrità servile.
Proprio questo confronto fra gli stati d’animo di allora e di oggi mi spinge a riannodare i fili di una storia che affonda le radici anche in ciò che è accaduto negli anni drammatici dei congressi del 1990 e del ’91. La svolta di Occhetto in realtà aveva seminato nello spirito collettivo un virus pericoloso, quello di un’ideologia libertaria fino ai confini dell’anarchia che tendeva a esaltare anche nella prospettiva di sinistra un individualismo tipicamente borghese e post-borghese volto alla realizzazione immediata dei bisogni e del godimento istantaneo. Già nelle modalità di quella svolta e di quel processo dissolutivo di ogni memoria storica si stavano ponendo le premesse per un vero e proprio culto della “personalità istantanea” priva di passato e di futuro che si afferma nella presenza piena e ottusa del momento in cui si sta vivendo, semplicemente come corpo desiderante e come molecola atomizzata scissa da ogni forma di socialità condivisa e responsabilità.
L’attacco della nuova offensiva neoliberista che seguì al crollo del Muro aveva in realtà nel nucleo profondo la rimessa in campo dell’individuo nella sua nuda vita di essere desiderante successo e potere. Se ripenso infatti al modo in cui progressivamente si riorganizzarono le forze culturali e politiche che nacquero in quegli anni non credo che si possa prescindere da un’interpretazione che tenga conto anche delle dinamiche psichiche. Paradossalmente tutti quelli che volevano cancellare il Pci, a cominciare dalla rivista Micromega e finire con Il Manifesto, stavano dando vita a un modello di intellettualità radical chic, in cui prevaleva nettamente la critica intellettualistica del cosiddetto dominio borghese in nome di una liberazione dai divieti e dalle oppressioni che avevano soffocato l’autenticità pulsionale degli esseri umani.
La critica del capitalismo finiva col diventare troppo spesso la critica dell’autorità in generale e attaccava ogni idea di vincolo in nome di un antiedipo liberato dall’oppressione del puritanesimo ipocrita della società borghese. Il rivoluzionario non combatteva più contro lo sfruttamento economico, ma per la liberazione sessuale contro istituzioni come la chiesa e la famiglia che mortificavano la naturale creatività istintiva. Una sorta di critica estetica della società borghese al posto di una ragionata diagnosi delle nuove forme di sfruttamento e di dominio capitalistico. Tutti gli intellettuali e i gruppi dirigenti che si staccarono dalla tradizione del Pci in realtà esprimevano una posizione elitaria di intelligenza illuminata che relegava al campo della superstizione anche la stessa rappresentazione degli oppressi e delle vittime del modello produttivo capitalistico.
Non è quindi un caso che oggi buona parte della sinistra, che accusa il Pd di essere succube della resistenza conservatrice del vecchio apparato burocratico e della nomenclatura comunista, si ritrovi attorno al nome di Rodotà che non ha nulla a che vedere con la storia delle lotte del movimento operaio e che invece bene rappresenta il nuovo individualismo libertario che trova nella rete lo strumento più efficace per una cosiddetta democrazia diretta. Essa fa valere le ragioni di ciascuno senza alcuna mediazione e senza preoccuparsi di definire forme e modi delle compatibilità tra istanze dell’individuo e istanze del gruppo a cui si appartiene. È correlato a questa svolta ideologico-culturale che sul piano della gestione politica ritornano in campo non le esperienze dei comunisti ma i modelli culturali del socialismo, che sono stati così ben rappresentati nella vecchia cultura del Pci dalla cosiddetta componente “migliorista” che oggi per l’appunto trova in Napolitano la sua massima incarnazione.
Dopo il crollo del Muro infatti la decomposizione del dna tradizionale, che era stato strutturato nelle varie componenti ideali e culturali dal togliattismo, e dal berlinguerismo dopo, dissolvendosi nel suo nucleo centrale si bipartiva paradossalmente verso una forma di liberalsocialismo migliorista, che restava presente anche con i propri uomini nella struttura del nuovo partito democratico, e verso una forma di radicalismo libertario, che prendeva corpo specie nelle ideologie dei nuovi movimenti.
Nonostante le proclamazioni e i tentativi maldestri di usarne la memoria, oggi nel Pd non c’è più niente che richiami l’eredità del Pci di Togliatti e Berlinguer. Non si vuole richiamare l’idea utopica di un comunismo futuro, ma l’identità pratico-operativa di milioni di uomini che si erano formati all’interno di una stessa esperienza di vita. Ciò che è scomparso davvero è il nucleo della storia del Pci e non già le sue possibili proiezioni future che non possono non apparire puramente velleitarie e ottusamente testimoniali. L’area della sinistra è oramai pervasa da due modelli culturali che segnano il tramonto di ciò che era stata anche l’originalità italiana: un migliorismo preoccupato di realizzare nella continuità del sistema politico alcuni criteri minimi di giustizia sociale e un radicalismo estremista animato unicamente da rabbia dissolutiva che tende a creare una massa d’urto destinata tuttavia alla irrilevanza politica.
Certo migliorismo e radicalismo sono per certi versi coevi alla grande tragedia dell’89 e probabilmente le scissioni che si sono succedute, accentuando fratture e differenze insuperabili, sono figlie dei gravi errori che furono commessi da Occhetto e dal suo gruppo dirigente: la presunzione di gestire in pochi mesi un vero e proprio mutamento antropologico. Ma nessuno potrà negare che la questione italiana coincide in gran parte con la storia della nascita e della fine del movimento operaio comunista.
Non riesco davvero a pensare che tutto quello che sta accadendo non sia in fondo il compimento di un destino che era già inscritto nell’anomalia di un paese che era riuscito a fare un compromesso costituzionale di altissima densità etico-politica e che poi nel corso degli anni della guerra fredda aveva coltivato in gran parte della borghesia italiana l’idea che anche le tracce del comunismo di casa nostra dovevano essere cancellate, per riaffermare l’egemonia di quella terribile filosofia gattopardiana che vuole a parole il cambiamento totale affinché nulla cambi nella brutalità dei rapporti di forza materiali. Tutti coloro che si sono implicitamente orientati a favore dell’alleanza con il centro sono espressione della linea migliorista di una conservazione degli equilibri nazionali ed europei attorno ai problemi della finanza globale. Viceversa i sostenitori della candidatura di Rodotà e della pressione mediatica della cosiddetta sinistra intellettuale sono più o meno consapevolmente i fautori di un radicalismo libertario che si pone come obiettivo una sempre più accentuata laicizzazione e secolarizzazione dello Stato e delle istituzioni pubbliche.
Chi prova a raccontare la storia, se veramente essa coincide almeno per la parte pubblica alla sua vita reale, non è poi certamente quello che può pronunciare giudizi su ciò che è accaduto e accade. Può sicuramente però portare allo scoperto le file sotterranee che attraversano la trama dei rapporti umani. Ho cercato di argomentare che la fine del comunismo italiano rappresenti realmente la fine di un’epoca, al di là di tutte le atroci vicende storiche che hanno riguardato l’Unione sovietica e il suo impero. Sarebbe negativo se, affrontando i temi del presente, ci si lasciasse risucchiare nella memoria del passato come chi, alla ricerca del nuovo, si facesse suggestionare soltanto dalle innovazioni che riguardano la tecnica delle comunicazioni.
Per afferrare il bandolo della matassa bisogna in realtà partire da ciò che è successo in Europa dopo l’89 e dagli effetti che la globalizzazione neoliberista ha avuto nel corso di questi decenni sulle metamorfosi della sinistra europea. È in quel drammatico evento che affondano le radici dei mutamenti dell’identità profonda dei partiti della prima Repubblica. Anche un puro rilancio delle politiche keynesiane del vecchio compromesso sociale non può che risultare inadeguato.