Mi arrivano una serie di richieste a non seguire il comportamento di “lagnosità inconcludente” da me criticato, indicando a che cosa penso quando parlo di “questione insegnante”: le mie considerazioni rispondono anche, credo, ad alcune delle obiezioni che mi muove Giorgio Israel. Sono molto lunghe e, temo, poco giornalistiche: non me ne vogliano gli amici del Sussidiario, che vorrei ringraziare perché si sono qualificati come uno dei pochi luoghi in cui avviene un reale dibattito sui problemi della scuola e dell’università.
Per restare nella metafora guerresca – quella del soldato Ryan per intenderci – si può partire dalla constatazione che le guerre si fanno con i soldati che si hanno: in questo caso, con circa 700mila docenti “di ruolo”, la cui età media è di 49 anni. Sia le cessazioni che le assunzioni sono regolate non dal mercato (da quanti insegnanti sono realmente necessari), ma dalle norme, ad esempio quelle pensionistiche, che possono determinare un aumento delle dimissioni ma anche un cambiamento dell’età di pensionamento, così come la restrizione per i nuovi assunti ha, in prospettiva, ristretto le possibilità di ingresso di nuovi insegnanti.
Negli ultimi dieci anni, il tasso di uscita ha oscillato fra 2,1% nel 2002 e 6,2% nel 2007 (in valore assoluto da 15.260 a 43.620 insegnanti), mentre le assunzioni sono variate da 1,8% nel 2004 a 7,1% nel 2007 (tra 12.363 e 49.715 insegnanti). Non voglio annoiare i lettori con una sfilza di numeri (chi fosse interessato, li trova nel sito del ministero alla voce “la scuola in cifre”): ma pare evidente che almeno per i prossimi dieci anni il miglioramento dei docenti – e per il momento non entro nei contenuti – si avrà da un equilibrio fra la formazione in servizio dei docenti esistenti, accompagnata o meno da incentivi di carriera, e un nuovo sistema di formazione che eviti gli errori del passato.
Questo include un’attenta gestione della fase di transizione, che parte dal momento in cui la normativa diviene operante, e il momento in cui si completa il percorso formativo previsto. Per fare un esempio, se si partisse con i nuovi corsi di formazione quinquennali per i maestri elementari con il prossimo anno accademico, per incardinare i nuovi insegnanti si dovrebbe arrivare al 2016: naturalmente, con i vari riconoscimenti dei percorsi pregressi si potrebbero restringere i tempi, ma in ogni caso bisognerà pensare a che cosa fare almeno nei prossimi tre anni.
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Per quanto riguarda, nello specifico, i contenuti e i modi della formazione, posto che il metodo senza contenuti è vuoto, e i contenuti senza metodo sono inefficaci, ricavo dalla comparazione internazionale alcune utili indicazioni.
1. La preparazione degli insegnanti della scuola primaria punta essenzialmente su di un curricolo polivalente, in cui l’integrazione è molto forte. Il “maestro” è sostanzialmente un generalista, anche se ha delle specializzazioni, e punta, da solo o con altri – là dove prevale la scelta del team di docenti – alla crescita unitaria del bambino. È chiaro che non può insegnare la matematica o la storia se non la sa, ma l’aspetto disciplinare è in qualche misura strumentale rispetto agli obiettivi formativi: per insegnare la matematica a Pierino, diceva un collega, bisogna conoscere la matematica, conoscere l’insegnamento e conoscere Pierino. Questo modello viene definito “simultaneo”, in quanto la preparazione all’insegnamento avviene contestualmente a quella disciplinare, e talvolta richiede solo il diploma o un’istruzione superiore non universitaria.
2. La preparazione degli insegnanti della scuola secondaria vede invece un progressivo affermarsi degli aspetti disciplinari, cui è necessariamente collegato l’aspetto della didattica e delle scienze umane: gli aspiranti docenti che hanno conseguito un titolo di studio in una disciplina specifica, studiano poi per diventare insegnanti (modello “consecutivo”). Anche qui, quanto a competenze, cambia l’ordine dei fattori, ma non il prodotto, che è o dovrebbe essere un insegnamento di qualità. Sia nel primo che nel secondo modello sono previsti dei tirocini nel corso degli studi, con l’affiancamento di un insegnante esperto, e un periodo di praticantato (formazione pratica in ambito scolastico) in genere retribuito, e con un giudizio vincolante da parte della scuola.
3. Proprio per questo intreccio di competenze dei docenti (cui se ne aggiungono altre, come saper collaborare con i colleghi, saper valutare ed altre ancora), non solo sembra rischioso a me, ma è un modello ritenuto poco efficace quello di affidare alle facoltà universitarie la formazione dei docenti. Israel ha indicato, fra i meriti del regolamento, la collaborazione fra scuola e università: si tratta di un elemento positivo nella teoria, meno nella pratica, perché permane una subalternità della scuola, considerata inadeguata o incapace a produrre cultura su di sé.
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Per quel che riguarda la preparazione disciplinare, in particolare per la scuola secondaria, di cui certamente è soggetto prioritario l’università, io considero interessante il modello definito empty faculty, in cui dopo aver fissato i requisiti dei docenti ogni università, o rete di università, individua nelle varie facoltà i luoghi degli apprendimenti, attivando solo quelli che non esistono. La laurea triennale dovrebbe garantire le competenze disciplinari, mentre le didattiche potrebbero essere realizzate per gruppi di corsi di laurea, così come le tecnologie; le scienze dell’educazione – che non si possono etichettare tutte come “pedagogismi” – se non si trovano presso le relative facoltà, possono essere attivate ad hoc. A questo si oppone, in Italia, lo scarsissimo spirito di collaborazione delle facoltà, che cercano di sopraffarsi, ma non dovrebbe essere impossibile partire con una sperimentazione.
4. Lo snodo fondamentale che qualifica il buon insegnante è quello finale, l’esperienza guidata nella scuola, con un ruolo determinante dell’insegnante esperto, il mentor, che affianca prima, e supporta poi, il nuovo insegnante nell’ultimo tratto del suo percorso formativo, il più delicato, quello in cui si completa la sua preparazione in situazione, ma anche si compie una prima verifica delle sue reali attitudini all’insegnamento, che solo la scuola può compiere. Per questo deve esserci una valutazione finale discriminante: dell’inadeguatezza della selezione al termine del cosiddetto “anno di prova”, in cui quasi nessuno viene bocciato, è testimone il numero basso, ma sempre troppo elevato, di docenti inetti. Questo compito non è possibile in mancanza di una qualificazione – e retribuzione – dei docenti e un sostegno alle scuole che, analogamente alle cliniche universitarie, esercitano il ruolo fondamentale di qualificare i docenti. Dovrebbe anche essere possibile per queste scuole (ecco un’altra buona idea passata nel dimenticatoio) tenere per qualche anno gli insegnanti formati.
Riassumendo in forma estremamente schematica, affinché la professione docente recuperi prestigio e attrattiva, e il corpo docente nel suo insieme possa avere un colpo d’ala in grado di portare fuori della palude la scuola italiana, non basta sostituire un modello “disciplinare” ad uno “pedagogico” (ma credo che non lo pensi nemmeno il collega Israel nella sua vis polemica!), e neppure puntare su di un “modello purchessia”. C’è bisogno piuttosto di un intervento articolato sul lungo periodo e su molti punti: una formazione, iniziale e in servizio, basata sulle acquisizioni più recenti della ricerca scientifica disciplinare e nelle scienze dell’apprendimento; il potenziamento dell’autonomia delle scuole e la valorizzazione del loro ruolo di comunità di apprendimento; l’esistenza di una carriera; la valutazione sistematica; la valorizzazione del merito; la possibilità di scelta reciproca fra le scuole e i docenti.
Peccato che è passato molto tempo da quando non credo più nella cicogna…