“Bellezza e verità” è il titolo del 71esimo convegno della Fondazione Centro Studi Filosofici di Gallarate. Il convegno si svolge a Roma dal 22 al 24 settembre 2016. Le relazioni principali sono affidate a Claudio Ciancio, Virgilio Melchiorre, Jean-Luc Marion, Giorgio Bonaccorso, Federico Vercellone e Costantino Esposito. Di seguito proponiamo lo stralcio iniziale della relazione di C. Ciancio su “Convergenza e separazione di bellezza e verità”.
Il rapporto fra bellezza e verità è una questione cruciale della cultura occidentale, che ha attraversato la filosofia e la teologia, la pratica e la teoria dell’arte, l’uso sociale dei prodotti artistici, il nostro rapporto con la natura e la relazione fra tecnica e natura. Non posso certo affrontare qui tutti questi problemi, mi soffermerò soltanto su qualche momento particolarmente significativo della vicenda di quel rapporto nelle sue oscillazioni e nelle sue varianti fondamentali tentando di rendere ragione dell’esito attuale e delle possibili prospettive a partire dalla configurazione decisiva che ha assunto alle origini, e cioè con Platone e il neoplatonismo […].
Devo subito riconoscere che il tentativo di riproporre in positivo il rapporto bellezza/verità appare oggi particolarmente azzardato, perché nella sua vicenda storica esso sembra essersi irrimediabilmente usurato, al punto che non solo la loro separazione sembra definitiva, ma anche che la stessa consistenza e della bellezza e della verità sembrano dissolversi.
È importante mettere in luce l’implicazione reciproca di questi due aspetti e cioè la separazione e l’impoverimento di bellezza e verità. La loro separazione porta con sé conseguenze negative per entrambe, produce il loro impoverimento.
Infatti la bellezza, privata dello spessore della verità, finisce per assumere un ruolo marginale nella cultura e nella società: la produzione e la contemplazione della bellezza diventano momenti di evasione, i suoi prodotti vengono “musealizzati”, quelli artistici nei musei veri e propri, quelli naturali nelle aree protette. D’altra parte la verità, non più pensata nella dimensione manifestativa della bellezza, si riduce a questione soltanto logica e scientifica, a funzione del discorso o a valore della conoscenza.
Quando invece la verità sia pensata nell’orizzonte della bellezza, allora questa acquista un rilievo che eccede l’ambito estetico, assumendo una funzione rivelativa. E, reciprocamente, se la bellezza è pensata nell’orizzonte della verità, allora quest’ultima assume caratteri quali la forma organica e l’evidenza manifestativa (lo “splendore della verità”). All’inverso è evidente che l’impoverimento della verità e della bellezza, restringendo la bellezza a un ruolo esclusivamente estetico e la verità a questione soltanto epistemologica, ha come conseguenza la loro separazione.
Si può forse dire che in Platone sia già racchiusa tutta la vicenda del nostro problema, dall’estremo della convergenza a quello della separazione. Anzitutto per Platone la bellezza è inseparabile dalla verità e dal bene e, più precisamente, è il bene (dunque il principio dell’essere) a unificare bellezza e verità (Filebo 65 a), che sono manifestazioni dell’essere. L’Ippia maggiore insiste soprattutto sull’identità di bellezza e bene: proprio perché non può essere diverso dal bene, il bello va distinto dal piacevole e dall’utile; e ancora il Timeo sostiene che ciò che è buono è bello (87 c).
Ma una divaricazione tra la bellezza, da un lato, e l’essere (il bene) e la verità, dall’altro, si apre quando la bellezza venga pensata nella sua forma sensibile. Il Fedro precisa e articola il rapporto tra bello, vero e bene, pensando la bellezza come ciò che fa da tramite verso il mondo ideale, perché essa è la più percepibile dai sensi e la più amabile (250 d), anzi provoca brividi e accensioni (251 a-b); significativamente però osserva che sono pochi gli uomini che a partire dalle immagini terrene riescono a ricordare la bellezza del mondo ideale (250 a-b).
Di qui l’atteggiamento ambivalente di Platone nei confronti della bellezza naturale: essa può costituire un tramite verso la pura bellezza, ma più facilmente l’accesso ad essa resta bloccato. A maggior ragione l’arte, in quanto esprime un’ulteriore degradazione ontologica, risulta lontana dalla bellezza e perciò dalla verità. Dunque allo stesso tempo Platone afferma la piena convergenza tra bellezza e verità, quando si tratti della bellezza ideale, e invece la loro separazione, quando si tratti della bellezza naturale e artistica.
Plotino ripropone il diretto riferimento della bellezza al bene intendendola come lo splendore dell’idea (Enneadi, VI 2 18), ciò che rende amabile il bene (I 6 7). Essa non va pensata come mera apparenza: la bellezza è una vera realtà, e bellezza e bontà — dice ancora Plotino — sono la stessa cosa (I 6 6). Ma altrove precisa che il bello è generato dal bene e questa generazione — e qui sta una prima differenza rispetto a Platone — conferisce al bello una certa autonomia, perché consente al generato di sussistere per conto suo, mentre il generante, il bene, rimane al di là di esso (V 5 12). Vi è dunque un’identità e insieme una distinzione tra bene e bellezza, che definisce una gerarchia senza separazione. La bellezza è l’essere primo come luogo delle idee, il bene è al di là ed è principio e sorgente del bello (I 6 9). Quanto poi ai caratteri della bellezza, Plotino la intende platonicamente come simmetria e misura (I 6 1), come l’idea che dà ordine e unità alle diverse parti di un essere (I 6 2).
Una seconda significativa differenza rispetto alla prospettiva platonica si ha a proposito della bellezza naturale e di quella artistica. Se ancora strettamente platonica è l’affermazione che le bellezze dei corpi sono immagini della vera bellezza e che perciò chi le vuole afferrare come se fossero realtà, fa la fine di Narciso (I 6 8), è tuttavia significativo che Plotino ammonisca a non disprezzare le bellezze terrene, perché esse ci conducono e rinviano alla bellezza intelligibile (II 9 17). E, in chiave antignostica, egli osserva che non sono nel giusto quelli che criticano questo mondo, a meno che intendano dire che non è il mondo superiore (V 8 8).
La bellezza finita può esser allora considerata da due punti di vista, come imperfetta e come manifestazione della perfezione. Se qui la differenza rispetto a Platone è più di accento che di contenuto, la differenza si fa più rilevante nella trattazione del bello artistico. Secondo Plotino, le arti non si limitano a imitare le cose che vedono ma invece si elevano alle forme ideali.
Esse producono molte cose di per se stesse, perché, possedendo in se stesse la bellezza, aggiungono alla natura qualcosa che le manca, come Plotino sottolinea quando, parlando dello scultore Fidia, osserva che egli non guardò a un modello sensibile (V 8 1). Dunque si può affermare una superiorità ontologica dell’arte rispetto alla natura, perché essa guarda non tanto alla natura quanto piuttosto alla bellezza ideale.
Ora però dopo avere riavvicinato bellezza sensibile e bellezza ideale, ecco che la dialetticità del pensiero di Plotino ci costringe a un nuovo capovolgimento: tra l’una e l’altra va infatti riconosciuta una differenza qualitativa e non soltanto di grado. Come il bene, così anche la vera bellezza non ha una forma determinata a differenza delle cose belle che ne partecipano, è piuttosto l’informe che genera la forma: la natura prima del bello è senza forma (VI 7 33). Ciò comporta che la bellezza finita sia non tanto copia dell’Uno, del Bene, del Vero, ma anzituttociò che lo presenta portandolo all’esistenza.
La bellezza finita è l’apparire dell’Uno, la condizione della sua manifestazione, e lo è come forma compiuta e come armonia, che sono il riflesso dell’unità. Se, conclusivamente, mettiamo insieme la tesi di una relativa autonomia del bello, come il generato rispetto al generante, e questa tesi della differenza fra bellezza senza forma e bellezza come forma, non si potrà forse dire che la bellezza finita aggiunge qualcosa di essenziale all’Uno stesso, pur non essendone indipendente? Come vedremo, questo nodo teorico avrà ancora rilevanti sviluppi nel Novecento.