E’ morto l’uomo simbolo della prima repubblica, quello che meglio ha rappresentato una lunga pagina di storia italiana: con le sue virtù e i traguardi raggiunti, i suoi difetti, i suoi meriti e i suoi demeriti, le contraddizioni, le ombre, le cose a volte poco chiare che saranno oggetto di riflessione storica, con infine la caduta rovinosa dopo il grande cambiamento degli equilibri mondiali avvenuto negli anni che vanno dal 1989 al 1991. Sintetizzando al massimo, Giulio Andreotti appare come il simbolo della prima repubblica che ha fatto grandi cose, ma che poi non è stata capace di riformarsi ed è stata letteralmente travolta.
In questo momento di ricordi, anche confusi, diventa quasi stridente la comparazione tra il giovane Andreotti, eletto all’Assemblea Costituente, poi giovanissimo sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, con Alcide De Gasperi, nel maggio 1947, interprete quindi di un momento epico e ricco di decisioni per la rinascita italiana, e il senatore a vita Giulio Andreotti nel maggio 1992, che si imbarca in un braccio di ferro, quasi assurdo date le circostanze, all’interno della Dc e con gli alleati socialisti per raggiungere la presidenza della Repubblica. Una rissa continua e quasi mortificante per stoppare nell’urna elettorale per il Quirinale Arnaldo Forlani e non accordarsi con Francesco Cossiga e Bettino Craxi
E’ pure stridente l’immagine del politico raffinato, che diventa per sette volte Presidente del Consiglio, che ha occupato quasi tutti i dicasteri di primo rango del governo della Repubblica, gestendo con rara abilità anche i passaggi più delicati della vita politica italiana (a proposito del “governo della non fiducia”) e l’ultimo Andreotti, quello di gennaio del 1993. Il politico raffinato che in genere usava una ironia sottile e anche perfida, reagisce in modo irato e sembra spiazzato di fronte a un attacco violentissimo arrivatogli da oltre Atlantico, dall’autorevole “New York Times”, che lo accusa senza mezzi termini di essere “uomo di copertura” delle cosche mafiose, quasi un colluso.
Con tutta probabilità anche i grandi uomini politici sono legati alla propria epoca e spesso non capiscono i grandi mutamenti in cui stanno ancora muovendosi e finiscono con il sottovalutarli.
Il fatto comunque più assurdo sono le rievocazioni a senso unico che si ascoltano in queste ore e che sembrano ridurre la figura di Andreotti alle sue vicende giudiziarie degli anni Novanta, dove per altro esce soddisfatto (assolto con una postilla di prescrizione su alcuni fatti) dopo una sequenza processuale impressionante e rimane senatore a vita.
Per comprendere Giulio Andreotti, anche nel suo percorso politico e umano, bisogna risalire invece alla fine degli anni Trenta e all’inizio degli anni Quaranta, quando è nella Fuci (Federazione Universitaria Cattolica Italiana) e conosce l’“altro cavallo di razza” della futura Democrazia Cristiana, Aldo Moro. Dirà al proposito Giulio Andreotti: “Con Moro ci conoscevamo fin dai tempi della Fuci, lui era Presidente, io dirigevo l’azione fucina, e quando lui lasciò la carica io presi il suo posto. Quindi una dimestichezza che risaliva prima della politica… Ho sempre avuto con lui una relazione molto facile, proprio perché c’era questo legame universitario”.
Difficile distinguere vita privata, vita sociale da impegno politico. Di fatto, sia Moro che Andreotti, sembrano i due “prescelti” dal futuro Papa Paolo VI, Giovanni Battista Montini. E di fatto, sia Moro che Andreotti, pur nella loro differenza di cultura e temperamento, pur nelle divergenze che spesso sorgeranno tra loro, rappresentano ampiamente quella Dc che riesce a essere il più convincente contenitore elettorale dell’Italia del Dopoguerra. Un partito “perno” della politica italiana, che riesce a vivere in un equilibrio funzionale la complicata situazione del dopoguerra e della “guerra fredda”. C’è il sigillo plurisecolare della cristianità, c’è la diplomazia vissuta laicamente con il Vaticano, c’è un solido collegamento con gli Alleati occidentali, con gli Stati Uniti innanzitutto. E c’è anche una politica di “ascolto”, che poi diventerà di attenzione verso il mondo dell’Est e dei partiti che a quel mondo fanno riferimento.
Non fu affatto semplice gestire politicamente in Italia quel quadro complicato determinato dai “blocchi contrapposti”, dalla “guerra fredda”, che rischiava spesso di sfociare in terzo conflitto mondiale e di creare ferite laceranti nel Paese. E fu d’altra parte incredibile che in quel contesto internazionale tanto difficile, l’Italia diventasse in breve tempo una grande potenza economica, dopo un boom economico che nessuno poteva immaginare e che risulta difficile spiegare solamente con semplici aiuti arrivati da oltre Atlantico.
E c’è di più. In quel contesto internazionale di grandi difficoltà, l’Italia riesce anche ad assumere un ruolo importante, significativo e a volte decisivo nella politica estera, soprattutto con l’altra sponda del Mediterraneo, con i Paesi arabi che vivono il nodo cruciale della decolonizzazione. Chi è passato attraverso questi anni, può giustamente rivendicare il ruolo svolto dall’Italia e dalla sua classe dirigente.
Andreotti, malgrado quello che si dice spesso con molta svagatezza, in questi momenti fu uno degli indiscussi protagonisti di questa classe dirigente, un protagonista della politica italiana con i suoi passaggi spesso contraddittori e complicati. Nell’ “arte del possibile”, che è l’essenza della politica, Andreotti riesce con i democristiani, i laici, i socialisti, i comunisti, per oltre quarant’anni a garantire la stabilità politica italiana. Se all’inizio degli anni Cinquanta è uno degli ispiratori e interpreti della politica centrista, è poi l’uomo che guarda con attenzione alla nascita del centrosinistra, anche se in alcune occasioni se ne distingue, come nel 1972 e nel 1973, quando guida due esecutivi che si possono definire di centrodestra. Ma è poi l’uomo che nel 1978 guida il cosiddetto “governo della non sfiducia”, che apre la politica di “solidarietà nazionale”. Sbaglia chi vede in tutto questo lo schema moderno della “politica dell’inciucio”. C’è piuttosto grande realismo, capacità di cogliere tempi e mutamenti, costante attenzione verso la tenuta sociale del Paese. Cosa che non avverrà in seguito, come nel periodo tra il 1989 e il 1991.
Forse già negli anni Ottanta, soprattutto dopo la tragica morte di Moro, c’è qualche cosa che comincia a incrinare il ruolo della Dc e quindi anche di Andreotti. Ma sostanzialmente il sistema regge sempre.
Con la nuova generazione politica che arriva al Governo, si acuiscono i contrasti. Ma ancora nel governo Craxi, il primo a guida socialista, Giulio Andreotti è un impeccabile ministro degli Esteri. Ci sono già stati dei contrasti tra Craxi e Andreotti: l’affare Eni Petromin, la vicenda controversa della P2, le battute ironiche di Andreotti e le risposte durissime di Craxi: l’articolo sull’Avanti ! “Belfagor e Belzebù”, la battuta “tutte le volpi finiscono in pellicceria”. Ma tutto questo non compromette l’azione del governo Craxi del 1983, con Andreotti agli Esteri e Scalfaro agli Interni. Lo scontro politico che c’era stato negli anni precedenti viene circoscritto, metabolizzato.
E’ alla fine degli anni Ottanta, quando implode il “nemico storico” dell’Occidente, quando si scioglie l’Unione Sovietica, che i contrasti risorgono in una forma molto più astiosa, con una difesa quasi assurda di potere e ruolo personale. Nessuno di quella classe dirigente sembra rendersi conto che l’assetto geostrategico mondiale è cambiato e che questo mutamento si ripercuoterà sull’Italia. Nessuno, neppure Andreotti, si impegna per un reale cambiamento dell’assetto istituzionale della repubblica. Una grande epoca di uomini politici finisce così con il diventare protagonista della cronaca, più giudiziaria che politica. Forse l’aforisma “il potere logora chi non ce l’ha” era anche un’amara profezia.
(Gianluigi Da Rold)