Continua il dibattito tra l’uso di libri di testo editoriali, quelli su cui si basano le “adozioni obbligatorie”, e quello dei materiali autoprodotti da singole scuole o singoli insegnanti. È significativo in proposito l’articolo di Cristina Taglietti sul Corriere della Sera del 15 dicembre, dove i due esponenti del mondo editoriale intervistati ripropongono tematiche consuete: da un lato, l’editore si suppone faccia un lavoro più esteso e critico di impostazione e revisione, dall’altro si richiama il valore unificante che i libri di testo della scuola pubblica hanno avuto nella storia della Repubblica.
Premesso che è difficile credere, oggi, che il lavoro di revisione sia ancora propositivo come un tempo, di fronte a troppi testi sempre più evanescenti e poco distinguibili che sembrano contraddire il preteso “pluralismo”, vorrei retrodatare un po’ il riferimento storico.
A cavallo della formazione dello Stato unitario, programmaticamente impegnato sulla “pubblica istruzione”, troviamo un De Sanctis che scrivendo opere didattiche rivoluziona lo studio della letteratura nazionale, o un Cannizzaro che nel redigere i materiali per il proprio corso pone addirittura le basi di tutta la chimica moderna. Allora, il mondo dell’editoria scolastica semplicemente non esisteva. Oggi, non so quanti editori prenderebbero in considerazione opere di quel genere; ma, se fosse, non è improbabile che nella fisionomia del testo finale le impostazioni degli autori risulterebbero pesantemente denaturate da qualche oscuro consulente editoriale, preoccupato dall’idea di “prodotti” così innovativi rispetto alle tendenze del mercato.
Quando, un po’ scottato da esperienze personali, mi ero messo a studiare l’evoluzione dei libri di testo in ambito chimico, mi sorprendeva che la monotonia dei prodotti editoriali, tutti con la stessa sequenza di argomenti, lo stesso taglio didattico e persino gli stessi grossolani errori, in cui pare che a un autore più fresco e creativo si vieti il permesso di “sbagliare da solo”, fosse in realtà piuttosto recente. Fino ai tempi dei libri su cui studiavo da ragazzo, l’idea di pubblicare opere anticonfomiste non era un tabù… a voler fare sociologia spicciola, vien da pensare che quando la generazione ribelle di fine anni 60 ha preso in mano il boccino, l’idea della “fantasia al potere” sia stata la prima vittima.
Con poco pudore mi sto autocitando; in realtà è un’autocitazione al quadrato, perché in quei lavori ricordavo come noi studenti costruissimo materiali su cui noi stessi e i nostri compagni avremmo studiato, coordinati dai nostri insegnanti. In questo, ad esempio, si analizzava il mondo parallelo delle dispense, tipico soprattutto di quegli istituti tecnici più legati ai distretti industriali che trainavano l’innovazione. Troppo settoriali per i grandi editori, con seri limiti per riprodurre complesse sezioni iconografiche, per almeno un secolo i materiali didattici più aggiornati e specialistici dei relativi settori sono stati curati proprio da docenti e studenti di quegli istituti, e forse non è una coincidenza che da lì sia venuto il maggior impulso alla trasformazione di un paese rurale in una locomotiva della tecnologia mondiale.
I ciclostilati, le cianografie, i depliant commerciali avevano il ruolo di “supporto multimediale” che oggi chiediamo alle attuali tecnologie. La loro frammentaria precarietà era una debolezza, perché mancava proprio quella regia, quella marcia in più che un editore illuminato e professionale avrebbe potuto apportarvi. Ma era anche una forza, perché portava lo studente ad un approccio più laico e critico: cominciando dal fatto che, conoscendone la genesi, era in grado di vederne pregi e difetti.
Paradossalmente, l’omologazione è arrivata proprio nel momento in cui le tecniche di produzione editoriale consentivano una flessibilità ed una varietà prima impensabili, consolidandosi in un quadro di norme sempre più minuziose. E oggi siamo al punto che lo stesso ministro Carrozza si sente in dovere di minare l’edificio, da un lato per il costo sempre più pesante, dall’altro per superare l’omologazione verso prodotti stereotipati ed immiseriti.
È ovvio − come viene enfatizzato nell’articolo − che un editore abbia mezzi e risorse tali da consentire, ad esempio, supporti multimediali di livello professionale: ed anche questo va a gravare sul portafoglio delle famiglie. Ma davvero e sempre essi vanno oltre la semplice riproduzione con altri mezzi degli stessi contenuti che troviamo nelle pagine patinate del testo di riferimento? Non è detto a priori che ruspanti fotografie o filmati fatti col telefonino siano meno stimolanti per la fantasia, meno pertinenti e formativi rispetto alle loro versioni hi-tech. Anche, e soprattutto, perché privi di quell’aria sacrale di verità calata dall’alto.
Forzando un paragone con quel che i nostri bambini trovano per Natale, credo sia indiscutibile che i giocattoli costruiti col traforo o col meccano fossero più divertenti ed educativi rispetto ai perfetti pupazzi tecnologici che ti danno l’unica libertà di farli funzionare secondo le istruzioni di chi te li vende. Anche se a volte qualcuno è veramente creativo.
C’è, fra l’altro, un aspetto contingente che non vedo mai considerato. Nella scuola superiore siamo passati in pochi anni dal caos delle centinaia di sperimentazioni alla rigidità di un paio di dozzine di curricula. Proprio in questo contesto, in cui una manualistica di base può coprire i livelli minimi comuni delle “linee guida”, diventa più importante che ogni istituto, al limite ogni sezione sappia usare la propria autonomia per progetti originali che, in nessun modo, potrebbero prendere la forma del convenzionale libro di testo. Un buon insegnante dovrebbe assumersi la responsabilità di non fare due volte la stessa lezione nella stessa forma in due classi diverse, e per fortuna oggi ognuno di noi, per la prima volta nella storia, ha la possibilità di adattare in tempo reale i propri materiali didattici alle singole classi, alle singole persone che ci guardano negli occhi.
Lo ripeto, non ho nessun pregiudizio di fondo contro il mondo editoriale; anzi, sogno che esso riprenda quel ruolo coraggioso di proposta e innovazione che ebbe in certe epoche, quando si dava per scontato che se un libro era pubblicato da X lo si poteva acquistare a scatola chiusa. E, d’altronde, persino il fatto che gli autoproduttori si organizzino in reti strutturate mi dà un leggero disagio, perché esse potrebbero riprodurre quegli stessi meccanismi conformisti che rimproveriamo al mercato editoriale: persino Wikipedia mostra i limiti di qualche gruppo che “prende il controllo” su certi temi disciplinari. In altre occasioni, non avevo appoggiato l’idea che un qualche sinedrio di superspecialisti possa concedere un Bollino Blu a me e non a te: pure Santa Madre Chiesa ha da tempo limitato la logica del nihil obstat e dell’imprimatur ai pochi ambiti in cui sembra indispensabile.
Ma tutto ciò premesso, anche in questo campo è fondamentale che la scuola abbia un risveglio e un rilancio.
Lasciateci sbagliare da soli, cari editori: lasciate che germoglino i cento fiori dei tanti autori di buona volontà che scrivono solo per la passione del proprio lavoro. Sì, c’è tanta fuffa, ma voi stessi potreste riconoscere qualche fiore meritevole di entrare nelle vostre raffinate collezioni, molto più di quanto avvenga con gli attuali costosi prodotti di serra.