In una scena terribile e famosa del film 2001: odissea nello spazio Hal, il computer di bordo di un’astronave in viaggio verso Giove, “decide” di sopprimere alcuni astronauti che erano stati posti in stato di ibernazione. La telecamera ci mostra questi uomini, apparentemente addormentati, che trapassano insensibilmente dal letargo dell’ibernazione alla morte, senza che su di essi traspaia il benchè minimo cenno di questa transizione fatale. L’unico segno del cessare della loro vita è dato dal rallentare ed infine dall’interrompersi della pulsazione cardiaca e delle altre funzioni biologiche, che gli strumenti di bordo registrano.
Due cose ci sconvolgono quando assistiamo a questa scena. In primo luogo, che sia una macchina a decidere la morte di alcune persone. In secondo luogo, la quasi impossibilità di partecipare emotivamente al momento drammatico della loro morte, perché l’assenza in loro di qualsiasi espressione o reazione – sofferenza, ribellione o rassegnazione – ci rende difficilissimo immedesimarci in loro, e ci fa sembrare la loro morte una non-morte. Ci sembra inconcepibile che una morte possa accadere così, inosservata davanti ai nostri stessi occhi.
Queste due inquietanti prospettive – il rischio che l’uomo diventi vittima del suo stesso potere tecnologico, la possibilità del venire meno dei legami di empatia fra gli uomini – e gli interrogativi che essi comportano, sono certamente di estrema, crescente attualità. Basti pensare al recente caso Englaro. Il futuro preconizzato da 2001: odissea nello spazio, sembra, dunque, avverarsi con sorprendente precisione.
Il genio precorritore di Stanley Kubrick aveva avuto, in ciò, degli illustri predecessori. Nel 1944 due pensatori, ebrei tedeschi di formazione marxista, avevano già individuato il germe di tali due possibili traiettorie di disumanizzazione della cultura occidentale, ed esposto i risultati della loro riflessione in uno studio che fece scalpore. Si tratta di Theodor W. Adorno e Max Horkheimer, autori di Dialettica dell’illuminismo. Cosa ha reso possibile, in loro, uno sguardo così anticipatore, e in cosa consiste la loro diagnosi?
Uno sguardo alle date è significativo, anche se non dice tutto. Nel 1944 Adorno e Horkheimer assistono alle ultime fasi della catastrofe che fu la Seconda Guerra Mondiale, dopo aver già assistito all’imporsi, nel loro stesso Paese, dell’ideologia nazionalsocialista. Lo spettacolo di un’umanità alle soglie della propria autodistruzione è uno shock per moltissimi intellettuali, che sono costretti a chiedersi le ragioni di un tale tracollo della civiltà. Basti pensare, in Germania, al capolavoro di Thomas Mann Il dottor Faustus, o, in Unione Sovietica, allo straordinario Vita e destino di Vassilij Grossmann.
Ma la diagnosi formulata da Adorno e Horkheimer è inedita, folgorante e suona come un paradosso. Cosa ha reso possibile il dilagare della violenza, la distruzione, la barbarie, l’odio, l’ignoranza, lo sterminio? La risposta dei due filosofi tedeschi è: l’illuminismo. «L’illuminismo, nel senso più ampio di pensiero in continuo progresso, ha perseguito da sempre l’obiettivo di togliere agli uomini la paura e di renderli padroni. Ma la terra interamente illuminata splende all’insegna di trionfale sventura».
Con il termine illuminismo Adorno ed Hokheimer identificano una tendenza del pensiero occidentale che ha concepito il rapporto tra uomo e natura in termini di assoggettamento e dominio. Così facendo, tuttavia, l’uomo ha dovuto contrastare il fatto di essere egli stesso natura, cioè un fascio di istinti, desideri e domande da cui è costituito. Il “borghese” (con lessico marxista) è il prototipo di tale uomo che ha imparato a “frenare il cuore” e diventare, così, padrone di se stesso: «il Sé che si domina continuamente, e perde così la vita che salva».
Il meccanismo di liberazione si rivolge allora – così argomentano Adorno e Horkheimer- inesorabilmente nel suo opposto, e noi assistiamo ai suoi effetti: ecco perché il titolo Dialettica dell’illuminismo. La tecnica abilita al dominio sulla natura, ma l’uomo è egli stesso natura, e il “tutto è possibile all’uomo” si trasforma in “tutto è possibile sull’uomo”: ecco la prospettiva dell’uomo dominato dalle macchine. L’uomo può diventare padrone della natura, ma a patto di liquidare ciò che in lui è natura, cioè ogni moto del cuore, ogni desiderio, passione o compassione: ecco il venir meno dell’empatia tra uomini.
In uno dei tanti frammenti che compongono Dialettica dell’illuminismo questi due esiti di disumanizzazione emergono con particolare stringenza, e ci riconducono di schianto all’oggi. È citata la lettera in cui un celebre fisiologo ottocentesco, Flourens, avanza la preoccupante ipotesi che il cloroformio, usato come anestetico, non impedisca al paziente operato di sentire dolore, ma soltanto di ricordarsene una volta sveglio. Commentano Adorno e Horkheimer: «Potrebbe nascere il sospetto che noi ci si comporti, verso gli altri uomini […] in modo non diverso da quello in cui [se è vera l’ipotesi di Flourens] ci comportiamo verso noi stessi a operazione sostenuta: ciechi verso la pena».
L’intuizione chiave – sorprendentemente elementare, radicale e attuale – dei due filosofi tedeschi è questa, ed è il motivo per cui vale la pena di rileggere oggi Dialettica dell’illuminismo: se di fronte a ciò che accade agli altri uomini (il dolore, la nascita, la morte) non prevalgono in noi gli affetti naturali di pietà e compartecipazione, bensì le parole d’ordine del progresso che ci impongono di narcotizzarli, l’esito inevitabile è, prima o poi, la violenza verso noi stessi e verso gli altri.
Se dovesse essere così, nel futuro ci attende Hal 9001. Ma speriamo di no.
(Michele Barbalace)