In genere dalla risposta scomposta di un interlocutore circa un argomento si comprende quanto si sia messo il coltello nella piaga. È quello che è successo a Jonathan Franzen, scrittore americano pluripremiato, quando ha rilasciato un’intervista alla BBC (ottobre 2013) circa l’impatto dei social network sull’attività di uno scrittore. In quell’intervista Franzen si sofferma sull’assurdità, per chi scrive, di doversi costantemente autopromuovere e dipendere da Twitter. In alcuni casi gli agenti letterari si rifiutano di valutare un manoscritto se lo scrittore non ha già un seguito su Twitter.
Forse negli Stati Uniti sono più avanti anche in questo, perché in Italia l’editoria ha altri problemi, non meno gravi ma diversi. Fatto sta che il minuto dopo che la dichiarazione è andata in onda il popolo dei twitterati si è ribellato, anche attraverso twit caustici di alcuni agenti letterari che davano del bamboccione a Franzen. Ma dal momento che, evidentemente, questo scrittore non fa uso di Twitter, non si è scomposto più di tanto e dieci giorni dopo ha rincarato la dose con un’intervista a The Guardian in occasione dell’uscita del suo ultimo libro, questa volta un saggio e non un romanzo, Il progetto Kraus. Kraus, caustico scrittore austriaco (1874-1936), autore di epigrammi, era riuscito a mantenersi distante da ogni tipo di “traviamento” intellettuale. Il finanziamento della sua attività da parte del ricco padre gli consentiva di non sottostare a nessun padrone e avere di conseguenza la libertà di dire ciò che pensava. In qualche modo era la prova vivente di quanto diceva Oscar Wilde, “l’effetto del reddito fisso sul pensiero”. Quindi Franzen, prendendo spunto da Kraus, punta il dito sulla scomoda posizione dello scrittore, sull’imbarbarimento culturale e la conseguente facile manipolazione degli esseri umani.
Per chi si chiedesse come mai Franzen non abbia tradotto i più divertenti epigrammi di Kraus ma si sia cimentato nella traduzione di due saggi (uno sul poeta Heine e l’altro sul commediografo austriaco Nestroy) la risposta risiede nella sua convinzione che i temi trattati nei saggi siano molto attuali: oltre a un puro esercizio linguistico (Franzen ha studiato con una borsa di studio in Germania, dove è venuto a contatto con l’opera di Kraus) ha la possibilità di chiarire, se ancora vi fosse qualche dubbio, come la pensa sul significato di essere scrittore, in questi tempi estremamente mutevoli, sulla difficoltà di entrare in comunione con un altro essere umano attraverso le pagine pensate e meditate e, soprattutto, scritte sulla carta. Ne ha ben donde, dal momento che il romanzo che lo ha portato al successo planetario (Le correzioni, 2001) si distanzia dal secondo romanzo di altrettanto grande successo (Libertà, 2010) di ben nove anni. Parliamo quindi di un autore che non è sotto contratto con una casa editrice per sfornare un romanzetto all’anno, da cui magari trarre una sceneggiatura e mungere dei diritti cinematografici.
Il discorso che fa Franzen non è elitario, come scioccamente pensano coloro che se la sono presa, deridendolo. Al contrario, pone l’accento su un paradosso della nostra contemporaneità, ossia la mancanza di approfondimento in un’epoca in cui invece sarebbe molto facile avere una risposta più sostanziosa sul perché delle cose. Questa è l’epoca dell’instant book, del click grazie al quale tutti siamo tuttologi, del cyber-sex, della quantità contro la qualità.
Già un altro libro (How to be alone, 2002, raccolta di tredici saggi pubblicati tra il 1994 e il 2001) conteneva l’anima del Franzen-pensiero. Il conflitto dell’individuo con il mondo esterno, con tutto quello che è al di fuori dell’involucro e dall’involucro ritenuto nocivo, pericoloso o semplicemente inutile. Soprattutto il mondo esterno dominato dalla cattiva tecnologia. La lettura insegna a come stare bene da soli e ad arricchirsi intellettualmente in un mondo parallelo. Kraus si scagliava contro la stampa ammaestrata. Franzen contro l’ignoranza, senza mai nominarla.
Dunque la cattiva tecnologia e non la tecnologia tout court. I detrattori di Franzen sono la dimostrazione vivente delle sue critiche. Si sono affannati a rimarcare quanto fosse fuori dal mondo avendo dato via la sua televisione almeno vent’anni fa. Il problema non è inquadrare Franzen come un sociopatico scollegato dal mondo reale perché senza una connessione internet e chiuso in casa con I fratelli Karamazov. Il problema è intendersi su come il lavoro di chi scrive può assecondare il cambiamento dei tempi senza far perdere la propria identità. La piaga in cui Franzen mette il dito riguarda non solo la cultura in senso ampio, quanto piuttosto la capacità dei nostri contemporanei a comprendere un testo, a mantenere la propria concentrazione su di esso per più di cinque minuti, attività di gran lunga precedente e propedeutica all'”avere” una cultura. In poche parole, osserva l’indebolimento dell’umano discernimento. Il riflettere, lo stare con un pensiero, con un concetto contro il click convulsivo che, per sua stessa natura, non può portare riflessione.
La cattiva tecnologia con i suoi risvolti negativi fa pensare alla televisione “cattiva maestra” di Popper. In un’intervista Popper inquadrava proprio la questione della scelta dei contenuti e di come essi potevano influenzare le opinioni del pubblico. Spesso questi contenuti erano scelti superficialmente, senza comprenderne in pieno le conseguenze: “Dire che esiste una semplice trasmissione dei fatti è di per sé falso…”.
Dello stesso parere era anche Noam Chomsky che andava oltre e parlava di vera e propria manipolazione dell’informazione, per tenere la gente lontana da certe verità. Pensiamo solo a situazioni limite come quelle della Corea del Nord: i sudditi di Kim Jong-un vengono rintronati quotidianamente via tv con canti e preghiere sul valore e la bravura del suddetto, e non sanno che esiste un universo oltre il proprio confine. Naturalmente Chomsky si riferiva alla realtà americana, o comunque occidentale, in cui l’alternativa alla manipolazione di forza, come in Corea del Nord, era quella sottile e indolore dell’informazione.
Popper dunque teorizzava le potenzialità distruttive della televisione fatta male, criticando in particolare la violenza a cui esponeva i bambini in nome di un falso liberalismo. “Credo che un nuovo Hitler avrebbe, con la televisione, un potere infinito” diceva. Il male si annida dove trova terreno fertile. Anche per guardare la televisione ci vuole testa, per comprendere quando arriva il momento di usare il telecomando per spegnerla. Lo stesso vale per internet con gli eccessi che conosciamo, dalle sfide dei ragazzini a chi si ubriaca più rapidamente, al killer di Santa Barbara, che lascia un video-messaggio sulle sue intenzioni, proprio come i terroristi islamici. Questo è il problema della tecnologia usata male.
In ogni caso è sempre la dose che fa il veleno. Da questa televisione, da questa rete, non è difficile distaccarsi, non c’è bisogno di dar via il proprio televisore o buttare il computer. È però importante comprendere dove finisce il contatto che abbiamo con noi stessi quando siamo collegati e leggiamo notizie a cui crediamo supinamente, quando non troviamo un perché per approfondire, per fermarci a pensare prima di parlare o danneggiare qualcuno.
In questo Franzen può sembrare un marziano, con il suo modo di concepire il lavoro intellettuale come attività che libera l’uomo e non, come vorrebbero i suoi detrattori, renderlo asociale attraverso l’isolamento della lettura. I sociologi direbbero che siamo in un’epoca di transizione in cui, per esempio, carta e digitale lottano per il primato; in cui insulti, messaggi erotici, delazioni, parole che nessuno si sognerebbe di dire diventano invece possibili con Whatsapp.
Se Franzen avesse espresso questo malessere di uomo, prima che di scrittore, attraverso un romanzo sociale sarebbe stato flagellato di meno. Il messaggio che passa attraverso la finzione ha sempre un’attenuante che lo rende accettabile. Aver identificato così lucidamente il baratro nel quale il popolo della lingua smozzicata degli sms sta cadendo senza rendersene conto, perché ignora appunto, ha ingenerato invece una forte reazione, sintomo di grande insicurezza e coscienza sporca. In questo momento storico quale bellezza stiamo contemplando? La morte, il sangue, l’orrore arrivano in casa nostra anche se non siamo in guerra. La forza della visione di Franzen sta nel considerare la cultura come apprezzamento del bello e, in ultimo, della vita.