C’è una parola che non è solo decisamente fuori moda, ma, anche e soprattutto, fa a pugni con la dittatura del politicamente corretto. È una di quelle parole che la rivoluzione sessantottina ha orgogliosamente combattuto e trasformato in una sorta di bestemmia nei confronti di uno dei suoi pilastri ideologici, l’egualitarismo. È la parola “élite” che, forse la cosa può sfuggire, indica, invece, una condizione di necessità per una società che voglia avere un futuro.
L’élite è inevitabile e affonda la sua ragion d’essere nell’ineludibile distinzione tra chi guida e chi è guidato. In fondo, il marxismo e i vari post-marxismi erano e sono egualitari solo in ciò che promettono, nel loro momento utopico, poiché, per arrivare al loro obiettivo, presuppongono un’avanguardia o, più esplicitamente, la guida forte di una élite politica e ideologica. Il termine, già per il fatto che si tratta di un francesismo, può suonare irritante, non fosse che la sua stessa etimologia (dal latino “eligere”, scegliere) e ci parla di qualcosa che è, in qualche modo imprescindibile, proprio di un sistema democratico che non voglia degenerare in demagogia.
Anche la democrazia presuppone le differenze. Citiamo Huizinga: «Solo la commistione di un elemento aristocratico (elitario) rende la democrazia sostenibile e vitale. Se manca questo elemento, la democrazia è esposta al rischio di precipitare nella rozzezza e brutalità delle masse». Prendo il riferimento da un bel libriccino di Gerd-Klaus Kaltenbrunner: Élite. Educazione per il caso serio (Elite. Erziehung für den Ernstfall, 2008), purtroppo non ancora tradotto in italiano, che riesce a unire riflessione ponderata e provocazione rispetto alla cultura dell’egualitarismo ad ogni costo e ai suoi evidenti effetti deteriori. L’autore, del resto, filosofo austriaco, naturalizzato tedesco, per un certo tempo vicino alla Cdu, se ne distaccò proprio perché colse i segni di una trasformazione del partito in senso “moderato” e pragmatico e, conseguentemente, incapace di portare un autentico contributo alla palese crisi della cultura occidentale. Kaltenbrunner in questo suo volumetto dimostra – ma oggi la cosa è di per sé evidente a chi voglia aprire gli occhi -, che dove non si educa un’aristocrazia (letteralmente: «governo dei migliori») in forma consapevole e trasparente, si aprono spazi di vuoto per élites puramente funzionali e più o meno occulte o, per usare un’altra espressione della filosofia politica classica, a delle «oligarchie».
Ne sentiamo parlare spesso, di questi tempi principalmente a proposito di Ucraina e Russia, quasi che in Occidente gli «oligarchi» non ci siano. Non è così. L’ideologia dell’egualitarismo non ha prodotto uguaglianza, ma appiattimento, imbarbarimento e nicchie oligarchiche più o meno alla luce del sole. Le élites ci sono anche in Occidente, ma si collocano, appunto, in due categorie sociali quasi divergenti: i tecnici/tecnocrati e gli oligarchi.
I primi potrebbero anche essere definiti élite funzionale: ciascuno di noi cerca il medico migliore, l’insegnante o la scuola migliore, il consulente finanziario più capace etc. E basterebbe già questo per dire quanto siamo antielitari a parole ed elitari nei fatti… I secondi si definiscono esclusivamente per il possesso e l’abuso di capitale e, non a caso, sono il grande modello di un popolo ridotto a massa di consumatori: calciatori, veline, ricconi tendenti al tamarrismo. Del resto, dove la massa non ha un’aristocrazia a cui guardare, il decadimento del gusto, il prevalere del kitsch, l’assenza di educazione e di percezione estetica e l’affermazione del potere in quanto mero possesso divengono i tratti più caratteristici della massificazione di quel che un tempo aveva ancora i caratteri di un “popolo”.
Si badi che anche nel volumetto di Kaltenbrunner non c’è alcuna nostalgia per la vecchia aristocrazia feudale, che ha, ovviamente, fatto il suo tempo. Semplicemente si sottolinea come al potere e al suo uso si debba e si possa essere educati (e come ci sia popolo se c’è educazione del popolo). Semmai, la vecchia nobiltà, non certamente in toto, ma quanto meno alle sue origini e nel suo spirito più autentico, ci parla di un insieme di virtù – il coraggio, lo spirito di sacrificio sino all’estremo, il gusto per il bello e per il buono, il senso del bene comune, il senso della giustizia, la temperanza e la prudenza – che hanno richiesto secoli di educazione, in un percorso dall’esito tutt’altro che scontato. L’oligarca non vuole l’educazione del popolo, ha bisogno di masse. L’oligarca si mangia la comunità civile, l’élite la serve, perché se ne percepisce parte. All’élite si accede per merito, all’oligarchia per nascita o per carrierismo.
Citiamo ancora Kaltenbrunner: «Anche coloro che si dichiarano consapevolmente antielitari, rimangono di fatto in vita solo perché attingono, magari slealmente, a quelle riserve di eccezione che essi ufficialmente negano o combattono». E ancora: «La democrazia − il potere di tutti − e l’aristocrazia − il potere dei migliori – costituiscono solo due ideali, per non dire addirittura, due estremi utopistici, due poli all’interno dei quali si muove tutta la politica reale».
Non è forse un segno della crisi attuale, all’interno dei moderni sistemi liberali, che il primo dei due poli sia, teoricamente, affermato in maniera esclusiva? E non è forse proprio questo esclusivismo egualitario a generare il decadimento della democrazia in demagogia? Si tratta di domande, certo, forse anche di provocazioni, ma che si farebbe bene a prendere sul serio, soprattutto in presenza di spie preoccupanti, anche per chi tende a dissociare completamente l’educazione e la politica, ovviamente nel senso più nobile di quest’ultimo termine, quello della ricerca del bene comune per la polis, la comunità.
Una spia del decadimento è, del resto, proprio il diffondersi, non certo ingiustificato, dell’idea che la politica, così com’è, sia una cosa sporca e che i politici, in generale, non siano altro che “casta”.
Un’altra spia, questa volta sul versante dell’educazione, è rappresentata da un sistema scolastico che privilegia la massa sull’eccellenza. Nella scuola statale italiana, per esempio, non è certo un caso che i corsi di sostegno per alunni con difficoltà siano pagati 50 euro l’ora, quelli di “eccezione” (corsi di informatica, eccellenze linguistiche, specializzazioni extracurricolari) solo 35, beninteso “lordi”. Nel sistema scolastico, la prevalenza degli obiettivi comuni, con un denominatore comune sempre più al ribasso, su quelli individuali che cos’è, se non l’intima negazione del concetto stesso di educazione e di cultura? Spie, evidentemente, o indizi, il cui elenco sarebbe interminabile. Essere uguali per dignità, ontologicamente, non significa esserlo anche sul piano della vocazione personale e delle capacità.
La degenerazione della civiltà di massa non è un dato di fatto ineludibile, ma il banco di prova di una politica realmente coraggiosa, vale a dire, a sua volta, consapevolmente di élite, cioè disposta anche a perdere il consenso o a sacrificarlo, perché non tutto è necessariamente buono perché corrispondente al gusto (volubile) della maggioranza.