In principio non c’era l’individuo. Con questa formula, ricalcata sull’esordio di un testo ben altrimenti noto, si può identificare uno dei cardini della storia da cui proveniamo. Noi tendiamo a dimenticarcene, proiettando all’indietro nel tempo gli schemi di pensiero che dominano il nostro presente. Ma la realtà della società non si è lasciata sempre rinchiudere nei quadri che il sistema della vita moderna ha dovuto modellare per puntellare il suo trionfo e il suo codice etico di valori.
Al primo posto, per noi, viene l’autonomia della persona, vista come un essere titolare di libertà e di diritti, atomo fondamentale di una società concepita come una costellazione di essere isolati, che non devono dipendere gli uni dagli altri e inseguono una felicità che consiste nella soddisfazione la più possibile piena e senza limiti di ciò che si vuole e che più piace: di ciò che ognuno ritiene giusto e vero per sé.
Qualcosa di buono, che è stato storicamente fertile e produttivo, non si può negare che sia nascosto in questo movimento di emancipazione dell’io individuale, contro ogni rischio di assolutizzazione unilaterale dei legami che ci avvolgono da ogni lato e le possibili derive autoritarie dei rapporti di potere di tipo verticale, del superiore investito di responsabilità rispetto agli inferiori. La storia della famiglia ne sa qualcosa: non sempre la cerchia dell’intimità domestica è stata il regno di una fraternità ospitale, capace di accogliere e di far crescere nello spazio di una solidarietà stabile e pacifica, amica del bene di tutti – uomini e donne, genitori e figli, piccoli e grandi – allo stesso modo.
Viceversa, sappiamo ormai bene che l’emergere del valore della coscienza individuale non è affatto una invenzione rivoluzionaria ed eversiva della nostra modernità più avanzata. Proprio alle radici della civiltà fiorita nel grembo della cristianità europea, al culmine del suo primo grande sviluppo medievale, si rintracciano i segnali di una esplicita affermazione positiva dell’idea di persona e la decisa sottolineatura del suo diritto inalienabile a una libertà che né i poteri esterni, né le circostanze materiali anche più opprimenti potevano mai estirpare del tutto. Il monachesimo è stato uno degli ambiti privilegiati che hanno aiutato l’io del soggetto umano a far crescere la forza del suo primato come argine di una vita religiosa gestita comunitariamente dal basso.
Nel tessuto della società medievale si è ugualmente ramificata l’esperienza di un governo policentrico e autodiretto di una porzione vastissima di luoghi e momenti della convivenza collettiva. Nel solco di questa storia di lunga durata, ha potuto gradualmente maturare, non senza molti scarti e tradimenti, l’aspirazione alla libertà come fulcro più autentico della scelta di vita della persona, da cui è stata nutrita anche la sacralizzazione cristiana del matrimonio fondato sul libero consenso di due individui dotati di pari dignità, in una forma giuridica venuta pienamente alla luce in seguito alle riforme del concilio di Trento.
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Ma già nella sua fonte medievale, la difesa della dignità dell’io personale è sempre stata tenuta in stretta simbiosi con l’altrettanto risoluta salvaguardia delle trame di relazione di cui la persona era un frutto e, insieme, una proiezione aperta verso la crescita della società umana. Si concepiva l’io come l’emergenza di un noi al plurale. Il “noi” precedeva il singolo “io” e lo chiamava ad allearsi nella costruzione corale di un bene che era comune in quanto capace di integrare in sé quello delle parti che entravano a comporlo.
Il nodo delicato di tutto questo edificio tradizionale era l’equilibrio perseguito almeno come fine ideale tra la coesione del tutto di cui esse erano le membra viventi e l’autonomia di ognuno dei suoi elementi costitutivi: esattamente come in un corpo che è, senz’altro, una cosa sola, ma nello stesso tempo, per esistere e prosperare, deve articolarsi in un congegno di organi e funzioni diversificate, interdipendenti tra di loro e perciò da armonizzare, da far coesistere nella concordia di una cooperazione per il bene generale dell’insieme.
Meno noto, ma forse ancora più interessante per noi “moderni”, è il fatto che questa struttura basata su un ordine capace di coniugare la libertà e il bene privato del soggetto singolare con la salute dell’edificio complessivo dell’organismo sociale non è rimasta un relitto archeologico del pieno Medioevo. Dalla sua prima ossatura antica ha tratto modelli, regole e impulsi etici che ne hanno accompagnato la lunga continuità sotterranea sul filo dei secoli.
Tutti gli studi più seri sulla storia delle società dell’Occidente europeo, in particolare quelli della scuola giuridica e istituzionale di matrice tedesca, dalle sintesi ambiziose di Gierke fino a Brunner e oggi a Otto Gerhard Oexle, mostrano con una ampiezza straripante di documentazione che la sintesi “corporativa” tra la parte e il tutto ha continuato a innervare la “costituzione materiale” della società quanto meno fino al decollo dello Stato centralista più compiutamente moderno, che è un fenomeno di derivazione sette-ottocentesca, successivo al crollo dell’Antico Regime tradizionale.
Varchi autorevoli a favore di questa visione ribaltata in senso realistico e più “orizzontale” della storia della costruzione sociale, che riabilita tutto il ruolo creativo dell’auto-organizzazione della società in dialettica con i poteri di comando e le istituzioni di vertice dell’organismo dello Stato, si ritrovano per esempio nei lavori più recenti di maestri della ricerca storico-giuridica come Paolo Prodi e Paolo Grossi.
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Altri storici ancora del diritto, come Quaglioni, fanno vedere che il dialogo tra la persona e la comunità, o meglio ancora tra il cittadino, i corpi intermedi in cui i soggetti sociali si riunivano e la collettività generale che li ricomprendeva si riflette in modo trasparente nel linguaggio elaborato dal pensiero politico della prima età moderna per descrivere il cosmo della respublica. E non poteva farlo che oltrepassando il dualismo del rapporto di soggezione tra individuo-suddito e autorità suprema dello Stato che guida e detta legge dall’alto, affermatosi solo in seguito.
La logica della sintesi corporativa affiora in modo eloquente nella filosofia “pratica” della seconda Scolastica, nelle teorie di Bodin e dei suoi continuatori, fino a influenzare il pensiero dei politici anti-machiavellici del Sei-Settecento, per arrivare a lambire le sistemazioni dottrinali dei primi compiutamente moderni, come Hegel con le basi storico-giuridiche del suo idealismo. Il secondo punto centrale di interesse starebbe nel mettere a fuoco l’intreccio che ha potuto stabilirsi, nell’alveo dell’espansione del cristianesimo nel cuore della realtà europea, tra l’ordine sociale di cui abbiamo parlato e la spinta a un rimodellamento in senso cristiano della coscienza degli uomini e dei rapporti che da essa scaturivano.
L’ethos plasmato dall’educazione della Chiesa si proponeva di purificare l’egoismo ripiegato in una volontà di realizzazione solitaria, incorporando il bisogno del soggetto umano dentro la cura più lungimirante di una comunione che era la sintesi di un io riconciliato con il noi. La metafora del corpo e della pluralità delle sue membra, il simbolo della vite e dei tralci sono diventati la forma letteraria con cui il libro sacro del Nuovo Testamento ha ricoperto di valenze sacramentali questa esigenza insopprimibile di costruire una società che faceva del desiderio di abbattere i “muri di separazione” e di ricongiungere in una “cosa sola” i “due”, che altrimenti sarebbero rimasti “estranei”, il suo supremo ideale regolatore.
Di nuovo, la tradizione monastica e l’esperienza della vita religiosa comunitaria sono stati la sorgente più incisiva che sul piano storico ha tenuto vivo questo modello etico di organizzazione complessiva della realtà del mondo umano. In forme ancora più largamente condivise, allo stesso obiettivo ha collaborato l’imponente tradizione associativa delle confraternite laicali del popolo cristiano. Su queste, in particolare, vorremmo tornare in un successivo intervento.