«Abbracciami!» – esclamò la mia compagna di viaggio, sperando così di far credere, allo spione che ci pedinava, che eravamo una coppietta perdutasi nel tetro quartiere dormitorio di Bratislava-Petrzalka, mentre in realtà avevamo un appuntamento di tutt’altro tipo a casa del vescovo Jan Korec, all’epoca (1988) punto di riferimento della Chiesa slovacca “clandestina”. Oggi Korec ha da poco compiuto 85 anni, è cardinale e vescovo emerito dell’antica diocesi di Nitra, eretta ai tempi di san Metodio.
Nato il 22 gennaio 1924 da una famiglia operaia, Jan a 16 anni entra nella Compagnia di Gesù, e viene ordinato sacerdote nell’ottobre del 1950. Sono tempi di persecuzione per la Chiesa cecoslovacca: il regime comunista chiude i monasteri e avvia la campagna antireligiosa. Era necessario mantenere la successione apostolica, e così per volontà di Pio XII nel 1951 Jan viene ordinato segretamente vescovo. Dal 1951 al 1954 lavora come operaio alla Tatrachemia: «Provengo da una famiglia di operai – ha scritto nel suo diario La notte dei barbari – e non ho mai avuto problemi a fare l’operaio». Vive il lavoro come missione, pronto ad incontrare con carità cristiana una grande varietà di tipi umani finché, per problemi di salute, si trasferisce all’Ufficio igiene del lavoro, dove lo spediscono in biblioteca. Anche qui va oltre il semplice impegno di archivista: si inventa una rassegna stampa per i medici e scrive addirittura una storia dell’igiene sul lavoro a partire dall’antichità, sottolineando quanto fosse attuale l’idea di dignità umana presente nell’Antico Testamento!
Nel 1959 lo troviamo fra i metalmeccanici della Dimitrovka: «Mi alzavo prima delle 5, dopo la meditazione celebravo la messa, e prima delle 6 avevo già inforcato la bicicletta per andare al lavoro». Intanto segue clandestinamente il cammino spirituale di studenti e seminaristi, e ordina sacerdoti. Anche la polizia non perde tempo: nel 1960 viene arrestato, e al termine del processo-farsa è accusato di “spionaggio” e condannato a 12 anni di carcere. Il periodo più lungo lo passa a Valdice, dove incontra altri religiosi, fra i quali padre Zverina. Nonostante la dura condanna, il suo spirito resta libero: «Che dono meraviglioso è per l’uomo la sua anima, la sua mente, il suo spirito che non si lega alle quattro mura di una qualsiasi prigione, ma che può spaziare ovunque, fino all’ineffabile spiritualità di Dio!».
Il 20 febbraio 1968 lo rilasciano: i tempi stanno cambiando, e Korec partecipa al rinnovamento della Chiesa grazie ai fermenti della Primavera di Praga. Ma le sue condizioni di salute peggiorano, gli viene diagnosticata la tubercolosi ed è costretto a una lunga degenza sui monti Tatra. Nell’autunno del 1969, in visita a Roma, riceve da Paolo VI le insegne vescovili che riporrà nella sua “sacrestia”, come chiamava il cassetto dell’armadio, dove sarebbero rimaste fino all’89. Privo del permesso statale di officiare, il vescovo Korec torna in fabbrica, alla manutenzione degli ascensori, finché va in pensione (1984) e può dedicarsi a tempo pieno – clandestinamente – alla cura d’anime. Il summenzionato appartamento è meta continua di incontri con fedeli di ogni età. Sorvegliato e vessato dalla polizia (StB), Korec non è tipo da lasciarsi intimidire: invia lettere di protesta contro i soprusi ai credenti, mantiene i contatti con il dissenso civile, scrive testi di teologia pensati per la gente semplice e stampati all’estero, in bassa tiratura perché – gli aveva detto qualche intellettuale – «Sa, non sono perfetti»; per contrastare le cimici della StB si costruisce un cilindro vuoto fissato su un treppiede: mentre lui parla da un lato, l’interlocutore lo ascolta dall’altro, e viceversa.
Dopo la Rivoluzione di velluto può finalmente svolgere il suo mandato. Nel 1998 scrive gli esercizi spirituali per il Papa, e riceve diverse lauree ad honorem e riconoscimenti pubblici.
Scrive nel libro Jezis zd’aleka a zblizka: «Intorno all’anno 200 morì a Lione il vescovo Ireneo. Si è conservata una lettera da lui scritta all’amico e compagno di studi Florino, in cui rammenta quando a Smirne partecipavano alle lezioni del vescovo Policarpo, il quale era morto ottantenne nel 155. Ireneo ricorda che Policarpo raccontava loro gli avvenimenti collegati a “Giovanni, discepolo del Signore” che aveva conosciuto personalmente Gesù, e che Policarpo poté conoscere a sua volta personalmente molti anni addietro. Così Ireneo, in Francia e 200 anni dopo la nascita di Cristo, poteva ricordare Giovanni che aveva conosciuto direttamente Gesù, a sua volta tramite una persona, Policarpo, che aveva conosciuto direttamente Giovanni. Quando il vescovo di Lione durante la messa spezzava il Pane, non pensava ad un concetto preso dai libri, bensì al maestro Policarpo, il cui amico e apostolo Giovanni aveva conosciuto personalmente Gesù. Così si è conservata la memoria e la tradizione della Chiesa».