L’amarezza, che provavo quotidianamente facendo il preside, di fronte alle innumerevoli direttive ministeriali che indicavano sempre nuovi orizzonti e non vedevano il costante degrado, continua di fronte agli avvenimenti odierni.
La scuola viene esaminata per linee esterne, si cerca qualcosa che da fuori, senza toccare alcun meccanismo interno, possa imprimere dei cambiamenti. Significativo il pensiero di Daniela Notarbartolo che a proposito del regolamento Profumo nell’articolo di sabato 9 marzo dichiara: “Non che un Regolamento possa fare miracoli o sostituirsi alla intrapresa umana, alla buona volontà, allo spirito di iniziativa, alla positività nel guardare al futuro. Per questo non ci sono politiche che tengano. La crisi si vince con un’idea concreta di bene pubblico e con la presenza di soggetti che si impegnano per realizzarlo (e purtroppo se ne vedono pochi). Tuttavia è un segnale per tutti l’idea che un “miglioramento” sia necessario, che senza dati oggettivi navighiamo a vista, che qualcuno possa cominciare a muoversi sulla base dei dati, che i nessi di causa effetto valgono anche nelle società liquide come la nostra”.
Quindi non c’è alcuna speranza reale o prospettiva concreta reale ma “la mente” costringe a ritenere necessario un miglioramento. Il volontarismo “culturale”, astratto, non molla ma è solo. Manca la volontà gestionale.
C’è un dato che nessuno nomina sapendo, o sentendo oscuramente, che lo porterebbe ad infilarsi nella giungla vera del potere scolastico e di tutti i suoi mostruosi meccanismi: l’orario di servizio del docente statale.
Il docente statale ha un orario che è costruito esclusivamente sull’erogazione del sapere e non consente alcun margine alla riflessione ed alla valutazione. Il docente statale è in servizio solo quando c’è lezione, quando è in cattedra. Quando non ci sono gli alunni non è in servizio.
Unica possibilità residua per il dirigente scolastico è di convocare il docente nell’ambito di 80 ore annue sganciate dalla lezione. Ricordo perfettamente le mie discussioni con i presidi di sinistra e Cgil che convocavano i docenti per tre ore al giorno all’inizio di settembre o nel mese di giugno in assenza delle lezioni. Io sostenevo che il contratto non lo consentiva prescindendo dal computo delle 80 ore annuali, essi invece, che avevano ancora il mito della classe operaia, dicevano che era immorale non essere in servizio in universali periodi di lavoro. Quando ponevo il problema del rispetto contrattuale tacevano. La sinistra non ha mai risolto il problema del rapporto tra moralità e legalità. Nel frattempo ha anche dimenticato la classe operaia in nome delle moltitudini del mondo che per fortuna credono ancora nel lavoro.
Le 80 ore vennero alla luce dopo le ormai dimenticate 220 ore contrattuali annue che negli anni Ottanta erano state definite come il tempo minimo necessario ai docenti per svolgere le sante attività collegiali.
220 ore annue volevano dire 20 ore al mese per 11 mesi e cioè in pratica un pomeriggio alla settimana in cui tutti i docenti fossero a scuola per riunioni di vario tipo. Ma molti docenti, specialmente quelli con poche classi, si ribellavano dicendo che avevano più lavoro a casa dei loro colleghi di educazione fisica o di artistica o di religione e quindi le 220 ore per tutti erano ingiuste. Si giunse così alle 80 ore annue, divise poi in 40 + 40 cioè 40 per i collegi e commissioni e 40 per i consigli di classe. Così se un docente ha fatto 60 ore in un anno e ha già colmato uno dei due vasi di 40 ore non può essere ulteriormente convocato in quel vaso.
E così gli insegnanti delle elementari, dopo l’abolizione dell’esame di quinta, sono in vacanza dal 13 giugno al 13 settembre circa. Ugualmente stanno tutti i docenti non impegnati in esami alle medie ed alle superiori.
Nonostante la mitologia della collegialità, in realtà la funzione docente è assolutamente solitaria e gli insegnanti di una scuola statale si parlano solo nei corridoi durante i passaggi di classe o negli intervalli.
Stante questa situazione è assolutamente impossibile stabilire nelle scuole reali procedure e strumenti organizzativi per l’autovalutazione. Oggi solo l’attivismo volontaristico di un 10 per cento realmente “missionario” dei docenti riesce a fatica a mantenere una routine sempre degradante. Non esistono strumenti, energie e risorse per fare passi in avanti.
Solo creando, almeno in parte, la figura del docente a tempo pieno con un contratto simile a quello dei docenti regionali o delle scuole private si potrebbe porre rimedio alla situazione. Questo docente potrebbe essere pagato di più e le risorse sarebbero facilmente reperibili se ci si decidesse a ridurre il gigantismo del curricolo annuale e totale italiano che i totem sindacali difendono ad oltranza.
Forse questa strada sembra impercorribile a molti. Certamente ad Andrea Ichino che disperando evidentemente in una modifica dell’intero sistema scolastico propone nel suo articolo sul Corriere di venerdì 8 marzo la via dell’autonomia degli istituti scolastici. Rifacendosi alle innumerevoli esperienze internazionali, chiede che sia consentito alle scuole che lo desiderano “di sperimentare altri modi di fare scuola a chi vuole provarci, senza per questo impedire, a chi preferisce restare nel sistema tradizionale, di farlo”. In realtà questa non è la via dell’autonomia ma la via della richiesta timida di una immunità, del permesso all’indipendenza dal centralismo ministeriale chiesta umilmente e con moderazione.
Secondo me Ichino si illude. Il centralismo italiano non prevede lo sviluppo ineguale, anzi lo aborre e lo considera il principale nemico. L’autonomia non verrà concessa dallo Stato centralista e comunque non si consentirà di modificare l’orario di servizio unitario dei docenti statali.
Resto convinto che solo affrontando di petto questo tema si potrà creare la condizione preliminare ad ogni avanzamento qualitativo.