L’Ave verum, specialmente nella versione musicale di Mozart, è uno dei pezzi più noti del repertorio di contenuto religioso. Le opportunità create dalla rete di internet ne rendono ora possibile rinnovare l’ascolto con una facilitazione estrema, ogni volta che si vuole: fra le tante vie di accesso così disponibili, citiamo come esempio l’esecuzione della Bayerischer Rundfunk, diretta da Leonard Bernstein (Waldsassen, 1990).
Il supporto dell’immagine, in questo come in tutti gli altri casi simili, viene a intensificare il linguaggio pungente della melodia dei suoni e la forza dell’intreccio di parole a cui essa si lega: la concentrazione totale delle energie nel gesto a cui direttore e artisti si consegnano impone da sola il silenzio, pieno di attesa, da cui non si può evitare di lasciarsi avvolgere stando di fronte alla memoria del fatto decisivo dell’offerta di Cristo per la salvezza dell’uomo.
Mozart scrisse l’Ave verum nel luglio del 1791, nell’ultimo anno della sua breve vita, dedicandolo all’amico Anton Stoll, maestro di cappella nella chiesa parrocchiale di Baden, nei dintorni di Vienna. È un mottetto per coro misto, orchestra e organo, concepito per l’occasione della solennità del Corpus Domini, che cadeva esattamente in quel periodo del ciclo liturgico. All’esordio dell’estate, era – ed è tuttora – la festa che celebra la reale presenza del “corpo del Signore” nel segno del sacramento eucaristico, dieci giorni dopo la Pentecoste che chiude il lungo tempo pasquale, arrivati al giovedì in quanto rimando simbolico al giorno dell’Ultima cena da cui il sacramento del vero corpo di Cristo ha tratto la sua origine.
Luminosamente eucaristico è, infatti, il testo del breve inno rivestito delle splendide note del maestro di Salisburgo, che d’altra parte lo riprendeva da una secolare tradizione di esaltazione cattolica della fisica permanenza di Cristo in mezzo alla storia del mondo. Il titolo esatto non dovrebbe, a ben vedere, limitarsi alla coppia delle prime due parole con cui abitualmente lo si qualifica, ma estendersi a includere anche la terza: il sostantivo che non potrebbe restare separato da ciò che logicamente lo introduce, presupponendolo. Il trittico diventa: “Ave verum corpus…”, tutto insieme, cioè “Ti saluto, mi piego in amoroso omaggio davanti a te, vero corpo nato da Maria Vergine…”.
Questo “corpo” a cui ci si consegna in atto di fiducioso, netto e libero riconoscimento adorante – anche se non c’è bisogno nella preghiera di dichiararlo esplicitamente: sarebbe quasi un eccesso retorico – coincide con il pane consacrato innalzato sugli altari delle chiese nel giorno della festa, portato regalmente in processione per le strade a scopo di supplica itinerante, venerato come scudo di protezione per l’intera comunità sociale dei cristiani. Ma la preghiera commossa sfonda l’apparenza del segno rituale. Dietro ciò che si mostra in superficie e si lascia vedere, ostenta la sostanza segreta svelata dallo sguardo della fede.
Nel segno materiale di un disco di pane fa precipitare la vera consistenza carnale della persona divino-umana del Redentore: il gioco dell’allitterazione tra il verum corpus del primo verso e il vere passum che lo segue subito dopo è in questo contesto cruciale. Qui non si elaborano sregolate fantasie devote: ci si attesta sulla semplice solidità oggettiva di una realtà davanti a cui il cuore e l’intelligenza dell’uomo restano assorti, colmi di lucida riconoscenza.
Lo stupore velato fino al culmine delle lacrime, verso cui spinge la tensione patetica della grande musica dei sommi maestri, è quello della memoria amorosa della “pietà”. Se “vero” è il corpo di Cristo che si celebra, di un uomo in carne e ossa è stato il destino che ha coinciso con il vertice della sua immedesimazione nella sofferenza del genere umano di ogni tempo. Centro di questa fusione tra il destino di Cristo e quello dell’uomo è il sacrificio della croce: qui il fatto cristiano raggiunge il suo massimo di densità coinvolgente. La fede amorosa del credente è attirata nel vortice del miracolo dell’amore che salva donandosi dal patibolo del sacro legno del Golgota. Come nel testo dell’Ave verum risale fino al cuore ardente di Cristo “immolato sulla croce per l’uomo”, ne insegue l’effusione inarrestabile nell'”onda” del fiume di acqua e di sangue sgorgato dal suo fianco squarciato, e da questo dono misericordioso di energia divina spartita senza riserve con tutti gli uomini ricava lo slancio di invocare una vicinanza premurosa nella prova della morte, la pietà per la propria sorte eterna, il privilegio di poterLo a nostra volta “gustare” per sempre in una comunione senza più barriere e limiti di separazione: dalla morte passando alla vita nella sua pienezza totale, ricalcando lo stesso cammino che è stato il salto pasquale di Cristo dalla tomba del Sepolcro al trionfo della risurrezione piena di “dolcezza” e di luce.
Il movimento di idee che sta al di sotto dell’inno dell’Ave verum corpus, a ben guardare, è lo stesso che percorre la sequenza dello Stabat mater, o che si innesca nello scorcio conclusivo delle più classiche orazioni mariane, come l’Ave Maria o la Salve regina. Gli inventori di queste formule geniali della pietà cristiana non sono mai figure individuali identificabili. Alle loro spalle, sta la paziente codificazione di una grande devozione condivisa, prima vissuta nelle sue radici di esperienza, poi tradotta in equilibri di parole e ritmi di poesia. In particolare, spicca la forte vicinanza tra la logica d’impianto dello Stabat mater e l’Ave verum corpus. La loro sintonia riflette una genesi in larga parte comune: entrambi sono testi che affiorano dal febbrile cantiere inventivo dell’ultimo Medioevo.
L’Ave verum corpus, di nascita totalmente oscura, viene d’abitudine fatto risalire a redattori anonimi del XIV secolo. La data di emersione non è assolutamente casuale. Testo di esaltazione del vero corpo di Gesù, incarnato per noi e sacrificatosi sulla croce fino all’ultima goccia del suo sangue per ridonarci la vita, la sua fissazione in una stabile forma scritta si colloca esattamente a ridosso del primo decollo in grande stile della devozione incentrata sulla memoria eucaristica della presenza di Cristo nel segno del Sommo Sacramento.
Il Duecento, il secolo della fine di san Francesco e della giovinezza di Dante, aveva visto l’esplosione dei miracoli eucaristici e la crescita, anche dal basso del popolo cristiano, del culto della presenza reale di Cristo. Nel 1264 papa Urbano IV, da Orvieto, estese alla Chiesa universale la festa del Corpus Domini, che da poco andava introducendosi negli usi liturgici della cristianità. Da allora, il cammino verso l’espansione del realismo della pietà attaccata ai segni della memoria visiva e alla fisica identificazione con le sofferenze inflitte al vero Figlio di Dio disceso in mezzo agli uomini per liberarli dal peso delle colpe non fece che accentuarsi. Non bastarono le parole per contenere la forza d’impatto del sentimento cristo-mimetico. Venne subito in soccorso l’arte cristiana. Si mobilitarono la musica, il teatro, la pittura, la scultura policroma. Si inventarono gesti e nuovi rituali che davano sfogo agli affetti più vivaci degli individui e li spingevano ad agire, come avveniva nelle sontuose processioni corali del giorno dovunque dedicato alla festa del Santissimo Sacramento dell’altare. Con tutta la concretezza di ciò che si era, si tornava a calcare le orme già in modo paradigmatico impresse dal “vero corpo” di “Gesù dolce, Gesù pio, figlio di Maria”: in tutto uomo come ognuno di noi, e nello stesso tempo totalmente Altro.