Sarà stata la crisi economica che ha bloccato un certo tipo di attività di prevenzione; sarà anche il cambiamento climatico che porta a un intensificarsi di eventi estremi: sta di fatto che il problema del dissesto idrogeologico in Italia è mal impostato e gli esiti non possono che essere quelli che purtroppo constatiamo in questi giorni. Ne è convinto Vincenzo Francani, professore di geologia applicata al Politecnico di Milano e da molto tempo interessato direttamente ai problemi della tutela dei suoli, fin da quando ha partecipato agli studi sulla frana del Vajont del 1963 e alla redazione delle prime cartografie geologico-tecniche e geomorfologiche per la difesa dalle frane. A ilsussidiario.net il professor Francani esprime le sue valutazioni e avanza alcune proposte di fronte alla drammatica situazione di questi giorni.
Si è parlato di previsioni sbagliate, di valutazioni non adeguate della situazione di fragilità di quei territori; è così?
Ci sono sempre in tutte le previsioni dei limiti di incertezza, nel senso che le previsioni si basano su modelli matematici che vengono fatti su una base probabilistica. Dovrebbe essere chiaro che non c’è nessun modello che indica rischio zero. L’unico modo per valutare correttamente eventi come questi, che pure hanno carattere eccezionale e cadono in un campo di probabilità molto ristretto, è quello di agire d’anticipo e di rimuovere prima la possibile causa; altrimenti si resta esposti a quelle pur piccolo probabilità che tuttavia qualche volta diventano purtroppo certezze. Lì tutti sapevano da tempo che c’era una fonte di rischio; un mio collega dell’università di Genova, Renzo Rosso, ha anche scritto un libro, Bisagno. Il fiume nascosto, mostrando cosa è in grado di provocare questo fiume. Ma, cosa vuole, noi universitari in questo momento più che scrivere libri non possiamo fare.
Cosa intende dire?
Voglio dire che non abbiamo la possibilità di intervenire, come si poteva un tempo: per segnalare le emergenze, per aggiornare continuamente le cartografie delle zone inondabili o inquinabili o franabili. Erano interventi che una volta tutti noi facevamo molto volentieri. Poi però questa abitudine si è interrotta. Sara stata la crisi economica; o farse anche altro…
Quindi, cosa si dovrebbe fare per mettere in sicurezza un territorio?
Ci sono delle leggi, che risalgono a diversi governi fa, ai primi anni 2000, che invitavano i Comuni a dotarsi di piani di governo del territorio e di tutta la documentazione necessaria per individuare le aree a rischio idrogeologico o comunque dove ogni opera costruttiva andava realizzata con le dovute cautele. Questi piani ora ci sono (anche in Liguria, ndr) e consentono di sapere quali sono le zone vulnerabili: gli studi di base sono anche molto dettagliati e piani per la messa in sicurezza del territorio ci sono. Quel che c’è da fare è utilizzare al meglio queste informazioni e conoscenze, che sono facilmente accessibili, e provvedere a metterle in pratica. Ci vuole qualcuno che decida le priorità degli interventi.
Che tipo di interventi?
In sostanza, esiste una cartografia delle zone potenzialmente soggette a eventi traumatici. D’altra parte i territori da gestire spesso sono enormi e sottoposti a continue modifiche e alla variabilità degli agenti naturali. Quello che manca allora è qualcuno che sappia e possa decidere dell’urgenza degli interventi e solleciti chi di dovere ad attuarli. È il ruolo che qualche tempo fa era assolto dalla Protezione Civile che però ora non ha più queste funzioni. Manca questo passaggio intermedio.
La comunità scientifica ha qualche ruolo, qualche responsabilità?
Per cambiare la situazione si richiede proprio l’intervento della comunità scientifica: sarebbe il modo migliore per colmare questo gap. Negli anni ‘80 e ‘90 è stato così: il ministero per l’Ambiente stanziava dei fondi per la ricerca universitaria per studiare i territori a rischio; si era costituito il Gruppo Nazionale Catastrofi che ha fatto un buon lavoro. L’interlocutore era la Protezione Civile che prendeva in carico alcuni territori particolarmente esposti e varava dei progetti di sistemazione. A mio parere, bisognerebbe riprendere quel metodo e quella pratica: ripotenziare la Protezione Civile, stanziando fondi adeguati; rifondarla, con delle regole precise. È una questione di organizzazione; si tratta di attivare un iter virtuoso in cui le università svolgono le ricerche e individuano luoghi a rischi e tempi previsti per le potenziali calamità; poi trasferiscono questi dati alla Protezione Civile la quale, avendo i fondi disponibili, può agire.
Gli altri paesi in casi del genere come si comportano? Possiamo prendere esempio?
Nella maggior parte dei casi seguono il modello che ho appena indicato. C’è questa “catena di montaggio” della ricerca, la quale analizza le situazioni e indica cosa bisognerebbe fare; ci sono poi degli enti governativi che prendono in carico tali indicazioni e operano sul campo. C’è una cinghia di trasmissione molto robusta tra università e altri organismi; c’è una comunicazione continua ed efficace che consente a tutti gli attori di entrare in gioco, fronteggiando anche le situazioni più critiche. Come è stato, lo ripeto, anche da noi per un certo periodo; quando si vedevano scendere in campo tutti i soggetti coinvolti: lo Stato mandava i suoi uomini, le Regioni mandavano i loro, i magistrati si interessavano, la ricerca faceva la sua parte. Insomma, c’era tutto un insieme di scambi tecnici, culturali e informativi attraverso canali che oggi sarebbero da ripristinare.
(Mario Gargantini)