È raro che una persona molto intelligente sia anche umanamente vivace, simpatica e buona. Emanuele Samek Lodovici era una di queste rarità.
Io avrei dovuto laurearmi con lui, dopo aver frequentato per due anni i suoi seminari di filosofia morale all’Università di Torino. Qui Samek, in fuga dalla Cattolica degli anni Settanta, dove non sembrava esserci posto per uno come lui, era arrivato come ricercatore nella cattedra di Vittorio Mathieu. Avrei dovuto laurearmi, perché Samek – dopo avermi assegnato la tesi: «Ubaldo, cosa vuoi dire di nuovo su Dostoevskij (questa era l’intenzione che gli avevo manifestato), perché non la fai su Chesterton? È vero, non è un filosofo sistematico, ma in quanto a pensiero e a filosofia qui (e fece roteare il dito in alto indicando gli spazi della facoltà di Filosofia di Torino) gliela mette in c… a tutti» – Samek, dicevo, morì per le conseguenze di un incidente stradale. Un embolo post operatorio che se lo portò via il 5 maggio 1981.
Aveva appena vinto la cattedra, a soli trentotto anni, doveva andare a Trento, e mi aveva detto che voleva portarmi con sé: «Dovrai studiare un po’…». Quel 5 maggio si chiuse il mio rapporto con l’università e la filosofia (per la fortuna di entrambe).
Il ricordo che ho di lui nei corridoi e nelle aule di quel secondo piano di Palazzo Nuovo, la sede delle facoltà umanistiche di Torino, è quello di un tornado, un’energia inarrestabile e coinvolgente, per niente intimidito dal clima pesante che in quegli anni si respirava in università. Un giorno arrivò come una furia allegra in biblioteca dove vigeva il più rigoroso silenzio e dove sedeva come responsabile un pensoso, baffuto e compassato signore: Randone. La furia proruppe in un grido: «è nata Isabella (la sua seconda figlia), Isabella di Castiglia, che giudicherà tutti i cristiani… e anche quelli che cristiani non sono, come te, Randone!», gli tirò i baffi e uscì.
Lo vedo ancora, in piedi nel piccolo vano davanti all’ascensore mentre parla con uno studente-lavoratore, meglio un lavoratore-studente, un uomo che teneva per mano la figlia di cinque-sei anni, e proponeva a Samek gli argomenti per la relazione che obbligatoriamente doveva tenere nel seminario propedeutico all’esame. Samek continuava a dirgli di sì e intanto guardava la bambina: «Certo, certo, Plotino. Va bene… ma la prego, porti via la bambina da questo postaccio, non le faccia respirare a lungo quest’aria… per la relazione non ci sono problemi».
I suoi seminari erano affollatissimi, erano attratti dal suo modo di insegnare e argomentare anche molti studenti di sinistra, non ideologicamente affini al suo pensiero. Mi colpiva come li sapeva ascoltare e valorizzare. Il seminario più interessante che frequentai con lui era, ovviamente sulla gnosi. L’argomento che lo catturò e a cui è dedicato il suo “Metamorfosi della gnosi”, raccolta di saggi profetica (edizioni Ares) che andrebbe riletta oggi per capire origini e percorsi culturali della «dissoluzione contemporanea».
Samek rinveniva un sostrato gnostico nella mentalità moderna, nella prevalenza della tecnica come soluzione del problema umano, nel rifiuto della necessità di una grazia, nel disprezzo profondo per il diritto. Una mentalità che non può non avere una “ostilità implacabile” per il cristianesimo, per la sua considerazione della realtà e della carnalità, per il suo concetto di analogia, mentre per il pensiero gnostico il mondo è irrimediabilmente una caduta e il divino è totalmente altro (sarebbe stato interessante, a questo proposito, il suo giudizio sul fondamentalismo islamico). Da questa ostilità Samek vedeva discendere un duplice attacco. Uno macrostrutturale contro i principi del cristianesimo «tale da svuotarne completamente il nucleo interno» attraverso la demitizzazione: «una vanificazione dei contenuti dogmatici del cristianesimo che tende a trasformarlo sino a renderlo irriconoscibile». Il secondo attacco, microstrutturale, è alla «prassi concreta del comportamento cristiano», una “rivoluzione culturale” tesa a «instaurare un nuovo senso comune creandone le premesse dal basso e non tanto attraverso un conflitto di posizioni ideali». (Sembra di leggere le cronache e gli editoriali dei principali media sul caso Englaro). Una rivoluzione culturale che «tende a ricostruire un nuovo modi di vivere, di parlare e di comunicare, di essere genitori e di essere figli, di essere marito e di essere moglie, di essere uomo e di essere donna», un attacco che si avvale degli «strumenti diffusivi delle posizioni ideali, il linguaggio e i mezzi di comunicazione… e di quelle istituzioni o di quelle persone che sono per loro essenza educative».
Mi piacerebbe oggi fargli una domanda sulla questione del diritto. Samek dice che il massimo ostacolo al desiderio di onnipotenza gnostico è la legge. Lo gnostico rifiuta una società in cui la libertà sia condizionata da leggi. E questo ben lo si capisce riguardo alla pretesa moderna di autodeterminazione. Ma come si concilia questo con il paradosso che una simile mentalità libertaria per quanto riguarda la concezione del singolo va di pari passo con un’esaltazione della “legalità” e con un’esasperazione della regolamentazione del vivere civile, con una proliferazione incontrollata del ricorso ai tribunali per risolvere ogni contenzioso umano, dalla decisione sulle cure alle liti da ballatoio?
Il saggio finale di “Metamorfosi della gnosi”, quello sulla memoria, dice che la riscossa di fronte allo gnosticismo moderno può venire da una “cultura del ricordo”. Samek usa questa parola, ma è come se si accorgesse subito che “ricordo” è mancante di qualcosa, manca del presente dell’evento cristiano. Subito, infatti, passa a usare la parola “memoria”: la ricchezza di un passato che ci costituisce come coscienza del presente e progettazione (o speranza?) del futuro. «A che serve la memoria? – dice citando Eliot – a liberarsi». Ma c’è una formula che mi ha come fulminato: «Una volta scartate le risposte sentimentali, credo che si possa individuare il principio di una cultura diversa in un nuovo illuminismo». Nuovo illuminismo, sono le stesse parole usate da Joseph Ratzinger, il Papa che Emanuele Samek Lodovici non ha fatto in tempo a conoscere.