Grandi sono le possibilità di rilancio dell’azione educativa che i ragazzi offrono agli adulti e ai docenti attraverso i loro vissuti e i loro interessi, le loro curiosità, perfino attraverso le mode e i condizionamenti culturali, che spesso subiscono da parte dei poteri culturali forti o che inconsapevolmente finiscono per interiorizzare, modellando i propri comportamenti e atteggiamenti.
Se dal punto di vista adulto prevale spesso la paura, la paura del vuoto e il credere che in fondo non abbia senso educare, con la grave conseguenza del prevalere nei processi educativi del formalismo delle procedure e dei rituali, in qualche modo questa stessa paura finisce per coincidere con la percezione dei giovani di un’assenza di fine di bene, che dia senso e che spinga oltre e che giustifichi con positività il senso dell’agire. È il pensiero debole che affacciandosi nell’educazione, riduce a moralismo il senso della relazione, del bene, del bello, del giusto (forse dovrebbe essere questa la cittadinanza attiva?).
C’è forse una stretta relazione tra questa paura che serpeggia nelle coscienze degli educatori e la paura e l’horror che pervade, attraverso mode di successo, vissuti e culture giovanili? Se nulla infatti ha senso cosa resta? Un ego da risarcire e da affermare, anche se nelle forme più assurde e perfino disperatamente spietate.
Mi spiego attraverso flash di analisi della cultura horror, che sempre più sembra essere diventato una delle correnti prevalenti rintracciabile in forme ed intensità estremamente variabili nella formazione di quasi tutti i giovani. E ciò dalle collane di letteratura infantile (dagli innocenti Piccoli Brividi e Harry Potter) a giochi e filoni ludici fino (nei casi più estremi) a esperienze violente e torbide, pensiamo a certe espressioni della musica rock, vicine a forme più o meno esplicite di occultismo e satanismo.
Spesso l’adulto e la scuola sottovalutano il valore di tali tensioni e curiosità che attraversano i nostri ragazzi e si oscilla tra la rimozione (“sono banalità”) e la riduzione del tema a uno dei tanti filoni letterari. Relegandone la trattazione a qualche piccola sezione di antologia con qualche breve racconto di Alan Poe o di Sherlock Holmes, se non alla moralistica quanto inutile o controproducente lezione — se non fatta in modo sapiente — dell’insegnante di religione, che non riuscendo a rispondere efficacemente solletica ancor più curiosità morbose.
Si fa fatica a cogliere il senso di tali dimensioni sperando, in genere va così, che prima o poi tali torbidi interessi svaniscano per lasciare il posto a interessi più sani e produttivi. Ma in tal modo si sottovaluta il significato di queste componenti dell’immaginario giovanile che poi — è questo un altro aspetto centrale dell’argomento — non è tanto distante da quello dell’uomo di oggi. Un uomo apparentemente razionale, che rimuove sempre più le dimensioni dell’ignoto e del mistero salvo poi farle riemergere nel consumo di esperienze e di prodotti esoterici o nelle suggestioni dei grandi successi letterari di Stephen King e dei grandi film da questi romanzi ricavati. Una cultura che incarna da due secoli circa, e oggi con intensità mai prima sperimentata attraverso l’eugenetica di massa, il mito dell’uomo che si fa da solo e che può dare e togliere (oppure darsi e togliersi) la vita: è il mito frankensteiniano, quanto mai attuale, magistralmente profetico dell’opera di Mary Shelley.
È suggestivo ripercorrere a ritroso gli ultimi duecento anni di storia (attraverso i suoi eventi più significativi e innanzitutto l’idea di una razza superiore e dell’uso conseguente della scienza e in particolare della genetica e della medicina): un arco temporale che dall’illuminismo attraverso il positivismo, gli aberranti miti nazionalistici e le guerre mondiali, fino alle contemporanee tentazioni dell’eugenetica sussurra con sempre maggior vigore che tu uomo, come Victor Frankenstein “puoi — attraverso il potere della scienza — dare e togliere la cosa più preziosa: la vita” .
Allora quale è il problema dei giovani e che c’entra la scuola e che cosa questa potrebbe fare?
Tanto per cominciare si potrebbe iniziare accogliendo e non rimuovendo tali temi, attraverso percorsi che affrontino le proposte dei ragazzi, dall’aiutarli a capire che cosa è in gioco, ricercando insieme attraverso gli argomenti delle stesse discipline, magari mutando l’angolo tradizionale di osservazione; insomma, sperimentando.
È ciò che ci viene continuamente richiesto da tanti anni e che un po’ è culminato recentemente nell’autonomia e nelle Indicazioni nazionali per il curricolo.
Andrebbe certamente evitato di negare o banalizzare tale fenomeno, che (dalle operazioni raffinate di lobby culturali e scientifiche) pervade tensioni culturali di massa attraverso musica, cinema, pubblicità, informazione e messaggi subliminali e non, e raggiunge capillarmente le inconsapevoli e fragili coscienze degli adolescenti.
Il passaggio dal macro al vissuto morboso privato è sostenuto da strategie di marketing, dall’intelligence di agenzie commerciali e di lobby culturali e dell’informazione. Ci si dovrebbe interrogare sul senso di tali spaccati esperienziali e culturali, ricostruendone il profilo, conoscendoli, decodificandoli.
È evidente che tale capacità di coraggiosa iniziativa didattica e culturale dovrebbe attivarsi — assolutamente e per alto senso di responsabilità — soltanto in orizzonti metodologici più aperti e dinamici e animati da uno spirito di sperimentazione e di ricerca. Sarebbe così possibile denudare il fascino di mode tanto subdole quanto di successo, svelando le sottese e non ingenue operazioni culturali che non interessano soltanto minoranze di giovani e meno giovani. Così facendo non dovremmo più stupirci di come si fondono droga, bullismo, banalizzazione della sessualità, revival di paganesimo e di occultismo.
E allora può diventare interessante — ad esempio — scoprire il senso dell’operazione partendo magari dallo studio di testi di canzoni di Marylin Manson o attraverso un’analisi di personaggi simili e una decodifica del messaggio che li caratterizza: io mi faccio da solo e sono padrone di me e di tutto.
Si potrebbe così cogliere come questo messaggio fin troppo evidente sia fortemente suggestivo soprattutto per adolescenti in piena fase di superamento delle insicurezze e in procinto di affacciarsi in una realtà adulta spesso vissuta come escludente la creatività se non l’identità di chi, se vuole inserirsi, deve rinunciare al proprio io autentico, percepito sempre come inadeguato.
Sono spesso tanti elementi insieme, di segno anche molto diverso, che predispongono l’adolescente ad accogliere con curiosità e come appagante un percorso che sembrerebbe fatto apposta per le sue esigenze. Poi le suggestioni dell’appartenenza al branco, i vari riti di iniziazione, e perché no un po’ di immancabile sex drugs e rock’n & roll condiscono al meglio il tutto.
E la scuola, alle prese con le sue unità didattiche e/o di apprendimento che cosa fa?
Potrebbe fare moltissimo, se solo si ponesse in una straordinaria posizione di ascolto curioso ed esperto, premessa delle tanto celebrate quanto raramente praticate “ricerca azione”, “sperimentazione didattica” e “didattica laboratoriale”, che descrivono ciò che dovrebbe essere ma che salvo rare eccezioni non è, e chissà perché.
Da un’attenta lettura dei documenti più importanti di riforma della scuola si evince la netta consapevolezza di quanto siano importanti e decisivi i “nuovi orizzonti” evocati da tali strumenti e approcci didattici, anche se si preferisce non sottolinearlo mai con inequivocabile decisione, certamente per non spaventare, destabilizzandone la fragilità, i tanti tranquilli docenti seduti dietro la scrivania, fin troppo storditi da tante novità e incertezze.
Eppure non sarebbe difficile, una volta enucleato quel motivo (“io mi faccio da solo e sono padrone di me e di tutto”) esplorarlo ricostruendone la genesi da Mary Shelley all’eugenetica attuale. Duecento anni di storia dell’uomo e della tormentata sensibilità contemporanea da indagare attraverso tutte le discipline oltre che attraverso i pregevoli prodotti dell’industria culturale (dal cinema alla musica, al design, all’informazione).
Allora sì, diventerebbe interessante leggere e rileggere i grandi classici, e penso, oltre al Frankenstein di Mary Shelley, al Dottor Jekyll e Mr. Hide, e perché no al Dracula di Bram Stocker, gustarsene le diverse versioni cinematografiche, spiegando donde provengano tante simbologie ormai familiari perfino ai bambini. E si potrebbe così continuare a interrogarsi sui miti e i temi proposti, approfondendo le connesse tematiche scientifiche, cogliendo in una visione d’insieme le diverse sfaccettature di un fenomeno subìto, attraverso mode, e quasi mai affrontato se non frettolosamente e solo in qualche sua componente isolata.
E non fermandosi al solo fatto letterario, sarebbe possibile scoprire il senso delle grandi aberrazioni della storia contemporanea “andandoci dentro” anche attraverso lo studio dell’esoterismo nazista e scoprire come per la prima volta in modo sistematico e “super razionale” la medicina e la genetica vengono orientate in un senso terribile. E verificare che tra gli orrori di Auschwitz e quelli della ricerca eugenetica attuale esiste probabilmente un pericoloso filo conduttore.
È il senso della vita ad essere in discussione e il tema è troppo importante per non parlarne e non assumersene la responsabilità. Come rispondiamo all’horror dei telegiornali, alle violenze sbattute in faccia continuamente a tutte le ore e a tutte le fasce di età, alle inquietudini dei nostri ragazzi, che poi ci stupiamo a dover riconoscere violenti (mi fa sorridere l’ingenuità — apparente — di come viene trattato ritualmente il tema del bullismo) dopo che il 90 per cento dei messaggi culturali che ci ruotano intorno vanno decisamente in quel senso. Di che stupirsi? Forse del fatto che non ci stupiamo più e che la realtà delle descrizioni morbose degli omicidi e degli stupri nei telegiornali superano nettamente i più orripilanti film horror? E che la realtà è ben andata oltre la peggiore fantasia?
A volte sembra che l’infierire sul ragazzo più debole se non disabile, l’allungare le mani sulla professoressa, gli intriganti e perversi giochetti di manipolazione delle coscienze di tante trasmissioni alla Maria De Filippi, corrispondano ad un unico disegno assurdo ma profondamente coerente cinico e disperato. Il disegno di un mondo in cui, la semplicità, l’innamorarsi di una coetanea, il lasciarsi andare alla dolcezza delle domande sul senso delle cose, il rispetto di tutti, la pacatezza, l’immaginazione, la malinconia, l’abbandonarsi nel leopardiano naufragio malinconico della memoria e dell’infinito spaziale e temporale — che ci costituisce strutturalmente —, in una parola la dimensione della bellezza è brutalmente violentata e rimossa. Roba da bacchettoni, da chierichetti, da gente che non ha capito niente della vita.
Sei solo e non ha senso la tua vita e quella degli altri, di conseguenza c’è solo la tua energia e la tua follia che può e deve affermarsi, è il piacere che conta e tutto quello che si può fare, costi quel che costi (anche strappare la vita di chi hai di fronte) è giusto che sia fatto, specialmente se le ultime remore e gli assurdi sensi di colpa possono essere annullati dall’uso di una qualche sostanza stupefacente. Perché non c’è altro.
Come rispondiamo a tutti quegli sguardi che abbiamo di fronte, e che ogni giorno ci guardano e ci interrogano sulla vita? Non ci interroghiamo, e per non interrogarci interroghiamo loro sui compiti fatti a casa (se c’è qualcuno che li segue), ben sapendo che fra uno o due anni probabilmente non avranno la forza di dire no alla prima offerta di sniffare o di spinellarsi o di concedersi alla prima esperienza per non essere da meno al modello disinibito della tv di stato o commerciale dei tanti bacchettoni —quelli sì — tanto belli e sensuali quanto falsi e costruiti nei camerini di prova di “Amici” o del “Grande fratello”. Come rispondere a chi prima o poi, superata la sbornia del falso giovanilismo e l’orgia illusoria del piacere a tutti i costi, poco alla volta dovrà assaporare la delusione o il regredire dall’omolagazione del piacere a quella del dovere, nella routine del lavoro, o dovrà passare dall’isterica euforia del “sabato del villaggio” alla depressione della “sera del dì di festa”?
Come guardarci, noi adulti facili predicatori quasi sempre antiviolenti ammantati di un facile pacifismo di facciata, ma che tradiamo nell’intimo la delusione e la violenza di “un senso profondo di bene smarrito” che privando il cuore dell’uomo — dei giovani che ci vengono affidati — di quel naturale desiderio semplice di giustizia, di bontà e di bellezza, autorizza ogni sorta di violenza verso gli altri e verso se stessi, in una parola verso la vita stessa?
Riemerge ancora una volta, insieme al vuoto e al non senso, il tema della paura: c’è uno strettissimo legame tra paura del vuoto e del nulla, rinuncia all’ideale, regressione sulle procedure e sulla finzione, sulla forma vuota dell’educazione depurata della sua sostanza. Quale è la sua sostanza? E’ ricerca del vero del bello del giusto attraverso qualcuno — l’educatore — che attraverso il fascino della propria esperienza guida il giovane alla loro ricerca, che per essere autentica deve essere sua.
Il non incontrare un educatore, che è la cosa più frequente che può accadere a una persona, significa essere abbandonati alla casualità di una ricerca a cui non sappiamo dare un nome, perché non c’è nessuno che ci indica una direzione a partire dalla quale orientarsi verso una propria direzione. E allora? È qui che ritorna l’antica tentazione di poter fare da sé (sostenuta dalla pervasiva cultura secolarizzata del consumismo e dell’edonismo che ispira quasi tutte le strategie delle grandi agenzie formative di massa). È la tentazione di sostituirsi alla guida ed autoguidarsi. È qui la fonte della paura, dell’orrore di poter tu decidere da solo cos’è bene e cos’è male: i cui confini, residui di un passato oscurantista, sono stati finalmente sconfitti dalla scienza e sono ormai svaniti. Per poi scoprire che non puoi reggere da solo tale responsabilità. “Guai all’uomo che confida nell’uomo”.
È qui la fonte della paura: che, in altre parole, possa tu piccola creatura decidere, col tuo limite e i capricci del tuo piacere e della tua apparente infinita libertà, il senso e il valore della vita. Allora la paura è la paura di essere soli nel non senso, oscillando tra deliri di onnipotenza e disperazione del nulla.