Nihil sub sole novi verrebbe da dire, dopo aver letto l’appello “Docenti ed accademici contro la didattica delle competenze” preperibile online. In realtà qualcosa di nuovo c’è: si muovono apertamente gli insegnanti oppositori a questa ed in generale a tutte le riforme. Il che è un segnale positivo per la dignità professionale della categoria (non è dignitoso limitarsi al sabotaggio o al mugugno) ed anche perché è noto che il meglio nelle società non viene da situazioni — peraltro solo apparentemente — bulgare. E non sfugge che si è spesso esagerato — peraltro quasi esclusivamente a parole — nel conformismo delle competenze, diventate, come molte altre prima, una sorta di pedagogia di Stato.
Ma i cultori di Luciano Canfora non troveranno nulla di nuovo. E chi in questi decenni ha “scarpinato” per collegi dei docenti o per corsi di aggiornamento vi ritroverà una figura familiare di oppositore: il giovane insegnante di storia e filosofia dei licei.
1. I sottesi ideologici. Si ripropone il modello della cultura tradizionale italiana alta da consegnare al popolo come obiettivo di democrazia ed emancipazione intellettuale e morale. Tutto bello, se fossimo negli anni Cinquanta, e se non si tenesse conto dei risultati di questa impostazione sull’innalzamento effettivo delle competenze e della cultura degli italiani: un’occhiata alle percentuali nazionali di lettura no? Qui però si fa un passo in avanti. E’ interessante leggere l’intervista di Orizzonte Scuola a Giovanni Carosotti, uno degli autori dell’appello. Il docente riconosce che la scuola italiana, il cui impianto in tal senso si vuol difendere, non “si è dimostrata abbastanza efficace e competitiva nei contesti sociali fortemente (!?) degradati”, dando luogo a abbandoni e bassi livelli conseguenti di competenze professionali. Appunto!
2. Conseguentemente, si accusa di economicismo l’impostazione relativa alle competenze: una formazione solo orientata al pratico, alla mediocrità insomma. In realtà, le conoscenze tipiche della cultura italiana non sono mai state disinteressate, perché hanno sempre avuto la principale funzione di indicatore di appartenenza sociale. Ma non si può negare che un’ottusa difesa di queste conoscenze rischia di metterle al margine. Mentre la presenza di un retroterra di conoscenza storica, anche nei suoi aspetti letterari e filosofici, è indispensabile per garantire un alto livello ad ogni civiltà, naturalmente in misure differenziate nei soggetti in relazione alle diverse vocazioni personali. E, naturalmente, purché sia chiara la loro finalizzazione alla costruzione della personalità dell’individuo, in altre parole alle sue competenze. Sconcerta vedere contrapporre il problem solving, inteso alquanto riduttivamente — è ancora Carosotti a parlare — come “modo unico di risolvere i problemi”, allo spirito critico che “individua i problemi nella loro complessità e li discute” il che sarebbe “molto più importante di risolverli”. Sembra quasi una parodia.
3. L’inserimento delle attività di scuola-lavoro è visto come il vulnus più grave. Ed in effetti è l’elemento più indicativo di tutto l’appello. E’ opportuno ricordare che i contenuti dei licei “innovati” dalla Riforma Gelmini avevano di innovativo solo una parzialissima rispolveratura di superficie. Ora, è vero che è vizio italiano quello di passare dal niente al tutto, poiché si pensa che le leggi fanno la società e non viceversa e che una maggiore gradualità sarebbe stata auspicabile. Ma c’è anche da tener conto del fatto che nel nostro Paese gradualità significa di solito affossamento, visto che i governi si alternano velocemente e che, differentemente da altrove, soprattutto sulla scuola ciascuno si affretta a disfare ciò che ha fatto l’altro. Che peraltro la formazione dei nostri giovani ad ogni livello avesse bisogno di una maggiore capacità di applicazione sembrava scontato. Anche perché la lontananza dalla vita reale ben raramente viene sanata da attività non organizzate istituzionalmente, visto il retaggio antropologico del nostro paese latino portato all’astrazione e che considera ancora il lavoro, soprattutto se operativo, un declassamento. Di questo abbiamo avuto recentemente una prova lampante in alcune dichiarazioni di studenti a proposito della loro esperienza di scuola-lavoro.
4. E poi perché cambiare, visto che i nostri giovani hanno risultati così brillanti all’estero? I giovani italiani hanno cominciato ad andare all’estero non solo perché non trovano spazio in Italia, ma anche perché si sono sprovincializzati: non tutti hanno come massima aspirazione quella di non allontanarsi dal proprio campanile. E fortunatamente parliamo degli strati alti delle competenze e non solo del personale che nei primi anni della Ue riempiva le quote dei posti spettanti all’Italia nella burocrazia di Bruxelles, con addetti ai servizi più bassi (e ciò avveniva in tempi di trionfo del modello di scuola idealizzato dall’appello e non in un nero presente, causato — secondo lo stesso appello — dalla didattica per competenze). Sarebbe importante che la ricerca affrontasse seriamente un’analisi in questo campo, uscendo dagli impressionismi. Quanto è fondata questa impressione consolatoria che circola da noi largamente? Di che percentuali parliamo? Di che aree di competenza e di lavoro? Potrebbe anche essere che la mancanza di medietas e di standardizzazione generi una piccola percentuale di eccellenze fattesi da sole e con l’aiuto del background sociale, successo pagato in termini di basso livello del resto dei giovani.
Ricette? Quelle del sindacato scuola Cgil e si presume di alcune nuove formazioni politiche. Assumere gli insegnanti precari, senza alcun cambiamento nella struttura e nell’offerta della scuola: “garantire una cattedra” e non attività che vengono ritenute superflue se non controproducenti. Come? Evidentemente moltiplicando le classi, come se l’Italia non avesse un rapporto alunni/docenti fra i più bassi e come se le analisi internazionali non fossero lì a dimostrare che superata una certa soglia (che l’Italia supera già abbondantemente) si tratta di un indicatore non significativo per alzare il livello degli apprendimenti.
Coloro che hanno “scarpinato” hanno sempre toccato con mano che in una parte dei licei era presente una forte opposizione a tutte le novità, composta soprattutto dagli insegnanti di area umanistica e principalmente di lettere e filosofia. Un singolare e triste rovesciamento, visto che nei decenni precedenti si è sempre trattato dell’area più innovativa ed attenta ai segni dei tempi. Un ceto sociale intellettuale di orientamento progressista che, in questo come in altri campi, sembra aver perso il contatto con i bisogni — in questo caso di sviluppo culturale ed intellettuale — dei più larghi strati della popolazione. Il rischio molto concreto è quello di relegarsi ad un ruolo sterile di laudatores temporis acti, che impedisce di far fruttare e sopravvivere la cultura che si dice di difendere.