Il mestiere dei giullari è quello di far ridere la gente e Francesco d’Assisi amò definirsi “giullare di Dio”.
Assumendo questo ruolo, egli indubbiamente affermava un aspetto giocoso, talvolta ironico, della sua personalità: egli soleva, ad esempio, affibbiare dei soprannomi, come quello di frate Asino (riferito al suo corpo) o di frate Mosca (rivolto a un confratello decisamente noioso). Essere giullari indicava per lui due ulteriori aspetti: da un lato, la volontà di porsi a un livello sociale (e religioso) “basso”, perché i giullari facevano i “buffoni di corte o di piazza” e non godevano del prestigio dei trovatori, dotti poeti di nobili e di re; dall’altro, tale scelta esprimeva una sensibilità artistica, connaturata alla sua indole: fin da giovane, Francesco amava, infatti, le cose belle, come la musica e il canto; sappiamo fra l’altro che egli cantava spesso in francese. L’aspetto mimico (e perciò “teatrale” in senso lato) è perfino documentato nel suo stile di predicazione: gli veniva naturale, infatti, preferire i gesti ai sermoni dotti, lunghi e noiosi. E i gesti potevano tradursi in una predica muta davanti a Chiara e alle sue compagne in San Damiano o, viceversa, in una dinamica rappresentazione natalizia che divenne poi l’archetipo del presepio, da lui “inventato” in quel di Greccio. Poco prima di morire, Francesco ci lasciò infine, nel Cantico di frate sole, un esempio straordinario di “serenità ontologica” per la gratitudine espressa di fronte alla bellezza del Creato. Si confermava così quella “ilarità” che egli (parafrasando san Paolo) raccomandò perfino nella regola dei frati Minori.
Serenità e allegrezza: in poesia, in un testo giuridico, nei gesti… la storia di Francesco d’Assisi fu certamente anche tutto questo.
Eppure, come fa notare lo storico statunitense Augustine Thompson o.p., nel suo recente e bel libro (Francesco d’Assisi. Una nuova biografia, Edizioni di Pagina, 2016) l’esperienza di Francesco fu pure attraversata da lunghi e tormentati periodi di aridità e di prova, analoghi a quelli che altri santi sperimentarono (di recente se ne è parlato per Madre Teresa di Calcutta): egli provò la drammatica percezione di un’assenza, di un Bene assente.
Il silenzio di Dio, dopo averne ascoltato la voce (Deus mihi dixit, ripeteva spesso Francesco), rappresenta una prova terribile, prova che non fu risparmiata neppure al santo di Assisi, perfino dopo le stigmate, che furono per un verso il culmine della sua assimilazione con Cristo.
Insomma, Francesco d’Assisi fu un uomo che conobbe la tristezza. Thompson spiega bene tutto ciò. E lo fa scegliendo una formula editoriale davvero indovinata: la prima parte del libro è, infatti, una vera e propria biografia che si legge con leggerezza, anche per lo stile narrativo sciolto e vivace, con frasi brevi e osservazioni argute.
Alla seconda parte sono invece riservate dotte, aggiornate e, talvolta agguerrite disquisizioni di natura storiografica, su quasi tutti gli aspetti dell’intricata “questione francescana”. Con questa struttura il libro si offre a un pubblico più vasto e, nello stesso tempo, soddisfa le esigenze degli specialisti, i quali ritrovano, capitolo per capitolo, tutti i riferimenti documentari e critici che stanno alla base delle affermazioni espresse dall’autore nella prima parte del volume.
Studioso domenicano, ben accreditato nel mondo accademico laico e internazionale, Thompson non ha bisogno di particolari e ulteriori presentazioni. Il suo amore per Francesco piacerebbe certamente anche a Dante Alighieri, che, come è noto, nel Paradiso mette in bocca l’elogio del santo assisiate a un domenicano, affidando poi quello di san Domenico a un francescano.
Fra le righe della bibliografia commentata dall’autore, si leggono alcune preferenze (come quella per lo storico italiano Raoul Manselli) e, soprattutto, una disinvolta libertà da certi schemi univoci che, pure a casa nostra, hanno opposto su due avversi fronti i sostenitori di un Francesco “sociale” opposto a un Francesco “mistico”. E, così facendo, si è giunti al paradosso che intorno a un santo, messaggero di pace, si sono scatenate le guerre delle interpretazioni.
Thompson sa districarsi molto bene in queste complesse vicende, consegnandoci un bel libro che la casa editrice Edizioni di Pagina ha con finezza intellettuale scelto e pure ben tradotto.
Un solo appunto finale, che non intacca la valutazione complessiva: non sono per nulla d’accordo con Thompson (che qui, purtroppo, segue il pur bravo Jacques Dalarun) sulla valutazione del rapporto fra Francesco e Chiara e, più in generale, tra Francesco e le donne. Vedere nel santo d’Assisi, se non una misoginia, una certa indifferenza verso il mondo femminile può forse nascere dalla comprensibile insofferenza dell’Autore verso immagini sdolcinate di zeffirelliana memoria, ma non trova riscontro nelle fonti, come spero di dimostrare in una mia imminente pubblicazione.
Intanto godiamoci questa, che, insieme all’interesse sempre vivo su Francesco d’Assisi, dimostra ancora una volta la verità di un simpatica e “liberante” osservazione di Franco Cardini: “Francesco non ha bisogno di biografi (…), i biografi hanno bisogno di Francesco”, che equivale a dire: “Tutti noi abbiamo ancora bisogno di lui”.