C’è un’opera bellissima di Stefan Zweig, il cui titolo in traduzione italiana – Momenti fatali – non rende sino in fondo quello originale, Sternstunden der Menschheit, momenti “stellari” dell’umanità. Quattordici scene, quattordici racconti brevi, che narrano, ciascuno, di un solo momento, di una stella, buona o malvagia, che ha brillato per qualche istante, modificando il corso degli eventi.
Ognuna di queste scene è la parabola di qualcosa che potrebbe accadere ancor oggi, una sorta di simbolo esistenziale di dimensioni recondite dell’umano, del rapporto tra la storia dei singoli e dei popoli e l’oscurità, tenebrosa, del Potere. La storia raramente è magistra vitae, men che meno lo è per la politica, ma, forse, è ancora utile cercare di riflettere sui grandi crepacci che ne percorrono il fluire incessante e in cui, in un attimo, possono precipitare e perire le speranze di intere generazioni.
L’attentato di Sarajevo, che non è, peraltro, tra gli eventi narrati da Zweig, è certamente uno di quei momenti fatali, che segnano la storia ed è, quindi, da questo punto di vista, molto più della semplice “scintilla” che fece scoppiare un incendio, la prima guerra mondiale, che, a parere di quasi tutti gli storici, sarebbe divampato comunque. Eppure di quell’evento lontano sfuggono particolari che non appaiono secondari, anzitutto riguardo agli stessi protagonisti. Il 28 giugno 1914 non era un giorno qualunque. Esso corrispondeva, nel calendario giuliano, alla festa serbo-ortodossa di san Vito e al ricordo del martirio serbo contro l’Impero ottomano. Era, però, anche una ricorrenza significativa per la vita privata dell’illustre coppia imperiale. Francesco Ferdinando ricordava il quattordicesimo anniversario del giuramento morganatico con cui aveva ottenuto dall’imperatore Francesco Giuseppe il consenso alle nozze con Sophie Chotek, slava di nascita e di rango sociale inferiore. Ferdinando, erede al trono, accettava con esso di escludere i figli nati da quel matrimonio da ogni pretesa di successione. Era, cosa rara per quei tempi, un matrimonio d’amore che, peraltro, aveva assunto anche una sua precisa coloritura politica, dato che Francesco Ferdinando era un sostenitore del “trialismo”, vale a dire della trasformazione della duplice monarchia in triplice, con una rivalutazione sostanziale dell’elemento slavo, particolarmente di quello slavo-latino.
Era anzitutto contro questa ipotesi che si mossero gli attentatori, membri del gruppo terroristico “La mano nera”, a sua volta legato alla “Mlada Bosna” (La giovane Bosnia), che mirava, invece, col sostegno del governo serbo, all’unificazione degli slavi del sud o “jugoslavi”.
La Bosnia, che dal Trattato di Berlino del 1878 era sotto amministrazione austroungarica, nel 1908 era stata direttamente annessa ai territori imperiali.
Francesco Ferdinando e Sofia erano in visita a Sarajevo. Il corteo di auto percorreva la strada che dalla stazione conduceva al centro della città. Poco dopo il loro arrivo, verso le ore 10.15, una bomba, lanciata contro di loro da Neleljko Cabrinovic, mancò il bersaglio, provocando diversi feriti anche tra la gente assiepata ai bordi della strada.
L’attentatore tentò il suicidio, ma fu bloccato dalla folla inferocita, picchiato e, poi, arrestato. Il gruppo degli attentatori, sette in totale, si disperse, probabilmente ritenendo che l’obiettivo fosse stato raggiunto. Sembrava davvero tutto finito. In realtà l’arciduca, con la moglie Sophie, aveva nel frattempo raggiunto, incolume, il luogo del ricevimento, dove era stato accolto dal sindaco della città, in un clima irreale e nervosissimo. La sua prima preoccupazione era stata per le persone ferite, chiedendo di poter far loro visita nell’ospedale dove erano state portate.
Caso volle che, durante il percorso, l’auto dell’arciduca, insieme con la sua scorta, sbagliasse strada, svoltando proprio presso il Ponte Latino, dove si era appostato Gavrilo Princip, uno degli attentatori. Avvicinatosi al lato destro del veicolo, Princip esplose due colpi di pistola. Il primo colpì Sophie all’addome, dopo aver trapassato la portiera. Il secondo colpì Francesco Ferdinando al collo, dove non era protetto dal giubbotto antiproiettile che gli era stato fatto indossare. Entrambi morirono di lì a poco, su quella stessa auto, in corsa nel vano tentativo di recare loro soccorso. Princip tentò il suicidio, secondo gli ordini che erano stati impartiti a tutti i membri della Mano Nera, ma fu bloccato dalla folla. Rivolte antiserbe scoppiarono, di lì a poco, sia in città che nei dintorni, tra le popolazioni bosniaco-croate e islamico-bosniache.
Lo choc in Europa fu impressionante, con un’iniziale simpatia per la posizione austriaca. Dopo un’indagine sul crimine, che evidenziò le responsabilità serbe, Princip, che era solo diciannovenne, fu condannato a vent’anni di carcere e trasferito nella prigione di Terezin, in Boemia, dove morì di tubercolosi nel 1918.
L’Austria-Ungheria, riscontrato l’appoggio tedesco (il famoso “assegno in bianco”), inviò un ultimatum al governo serbo, circa lo status della Bosnia-Erzegovina e la richiesta di porre fine a ogni forma di sostegno alle attività delle organizzazioni terroristiche panslaviste. Seguirono, com’è tristemente noto, la mobilitazione generale serba e quella parziale russa, cui l’Austria-Ungheria rispose con la dichiarazione di guerra, facendo scattare, a catena, il meccanismo delle alleanze che trascinò in guerra anche Germania, Francia e Gran Bretagna.
L’Europa era ancora in pace quella mattina di domenica 28 giugno 1914 e, se si leggono le dichiarazioni delle cancellerie nel mese successivo, sembrava che nulla dovesse cambiare davvero e sostanzialmente quello stato di cose. Anche quando gli eventi cominciarono a precipitare, ciascuno dei protagonisti pensava a uno scontro “regionale” e limitato nel tempo.
Per dirla con Cristopher Clark, i protagonisti del 1914 erano “sleepwalkers”, sonnambuli, che guardavano la realtà, senza vederla, prigionieri dei propri schemi e resi ciechi davanti all’orrore che stavano per scatenare nel mondo intero. Quel che accadde fu una tragedia su cui sarebbero stati versati fiumi di inchiostro, a guerra finita, per giustificare la propria versione dei fatti, cercando un colpevole unico, allo scopo di dare un fondamento giuridico ai trattati di pace, primo tra tutti quello di Versailles.
Fu la prima tappa della lunga guerra civile europea, per citare, questa volta, Ernst Nolte. In effetti, lo storico libero da pregiudizi fatica a trovare un vero “colpevole”. L’eziologia di questo conflitto fu così complessa da permettere a militari e civili di tutti gli stati belligeranti di credere che la propria fosse una guerra di difesa. Come osserva Clark, l’auto che portò, senza volerlo, l’arciduca Francesco Ferdinando al proprio, indesiderato, appuntamento con Gavrilo Princip, non poteva più fare marcia indietro. Lo stesso si può dire dell’Europa nel suo insieme.