Mentre scrivo ho sul tavolo un libro ricevuto per Natale. Apro e sulle pagine gialle dietro la copertina trovo, scritto a penna con chiara grafia: “Speriamo che il nostro regalo le piaccia e che i precetti del Sig. Browne possano accompagnarla nel suo 2018”.
Chi sia il signor Browne, i lettori di Wonder lo sanno bene. E lo sanno bene anche tutti quelli che, nelle vacanze di Natale, sono stati a vedere il commovente film con Julia Roberts uscito nelle sale cinematografiche italiane il 21 dicembre. È la storia di August, un bambino con malformazioni fisiche provocate da una rara malattia ereditaria. Dentro e fuori dagli ospedali per continue operazioni, August non ha frequentato le elementari, e ciò che ha imparato gli è stato insegnato dalla madre. Arriva però il giorno in cui anche per lui inizia la scuola media: i genitori hanno deciso di iscriverlo alla Beecher Prep School, così dovrà affrontare l’avventura fatta della quotidianità dei giorni di lezione, dei compiti a casa, del rapporto con i compagni e i professori. Ogni capitolo del romanzo (e così il film) è raccontato da un punto di vista diverso: quello di Auggie, di sua sorella, di alcuni amici e compagni di classe…
All’inizio della sua carriera e alla ricerca di argomenti che potessero accendere l’interesse degli studenti (è questo che si legge all’inizio del libro che mi hanno regalato), il signor Browne racconta di aver chiesto ai ragazzi di scrivere un testo per dire qualcosa cui tenevano molto. Per mostrar loro una cosa cui lui era affezionato aveva portato a scuola un quadro con una frase trovata in un libro alle fine delle superiori e da cui era stato folgorato. Come spesso accade nel prodigioso mondo della scuola, in quell’occasione gli studenti si erano mostrati più interessati a esplorare il significato della frase che a capire il motivo per cui gli era cara. E con quelle idee che nascono in classe dagli imprevisti cui ci si trova davanti, il signor Browne chiese ai ragazzi di illustrare il senso che avevano per loro quelle parole.
È qui che svelo ai lettori di chi è il regalo che ho tra le mani e quella dedica così semplice e, come tutte le cose semplici, intensa: di due studentesse uscite l’anno scorso dalla terza media.
Quando erano in seconda avevo fatto leggere il primo libro di R.J. Palacio, e al rientro delle vacanze invernali avevo trovato sui banchi copertine di diverso colore: molti, infatti, battendo sul tempo anche me, si erano procurati gli spin off del romanzo, scritti dall’autrice dopo aver ricevuto delle lettere che le chiedevano come mai non ci fossero racconti dal punto di vista di alcuni personaggi: è così che sono nati Il libro di Julian, Il libro di Christopher e, più avanti, Il libro di Charlotte, ora editi in unico volume da Giunti, ben in vista sui banchi delle librerie che prima di Natale ho visitato alla ricerca di regali. Quell’anno avevo assegnato un tema: immaginare di essere un compagno di classe di August e riscrivere un episodio del romanzo dal quel punto di vista. I miei studenti hanno prodotto lavori molto belli, tutti diversi, anche quando veniva citato lo stesso episodio; tutti originali, perché ognuno lasciava trasparire la voce di chi lo aveva scritto. Ci siamo accorti che avevamo fatto la stessa operazione di R.J. Palacio: un insieme di voci che attraverso la loro singolarità venivano a comporre una narrazione corale, e quindi, in qualche modo, epica; un insieme di voci che, nella frammentazione del mondo moderno e nella sua superficialità, hanno ricercato parola per parola, punto per punto, virgola dopo virgola, la verità dei sentimenti, la sincerità dell’amicizia, il coraggio di andare oltre l’apparenza.
Uno dei ragazzi, cercando una citazione per il suo capitolo (nel romanzo ogni narratore apre il racconto con una frase o un pezzo della colonna sonora della sua vita), ha scritto “La mia voce non ha bisogno di una maschera”: posso essere me stesso sempre, non ho bisogno di qualcosa dietro cui nascondermi. È in fondo la narrazione di questa lotta che si esprime nelle pagine del romanzo, in August ma anche negli altri personaggi: quella lotta in cui ogni giorno ognuno di noi è impegnato per conquistare sé, al di là di tutte le riduzioni sotto cui il mondo e il potere ci vogliono far soccombere, quella lotta per cui, anche per August, il giorno più bello può finalmente non essere quello di Halloween, nel quale il suo travestimento gli permetteva di andare a testa alta nel mondo.
Anche nel film questo è reso con grande maestria, nel tentativo di una famiglia di far prendere il largo ad August perché possa crescere e capire chi è, affrontando ciò che lui solo può e deve affrontare. Sarà che l’ho guardato avendo alle spalle il lavoro fatto con la mia classe e nel quale anch’io, come il signor Browne, ho avuto modo di essere più volte stupita da ciò che i miei studenti hanno saputo “tirar fuori”; sarà che l’ho guardato domandandomi, come spesso accade, se la trasposizione cinematografica di un libro avrebbe retto il confronto con l’universo che un testo letterario apre, ma ho avuto l’impressione di un film quotidiano, dove emergono con delicatezza i tratti di vite che si intrecciano, dove si mostra il compiersi dell’affetto di una madre, che nel giorno in cui il figlio inizia la scuola siede sola alla scrivania dove per anni gli ha fatto lezione e decide di continuare la tesi interrotta; un film dove emerge il dolore di un amico e il suo bisogno di ricominciare dopo aver ferito il desiderio di una ragazza di sentirsi figlia nel momento in cui cresce e inizia il liceo, la trepidazione di un padre per suo figlio, la responsabilità di un preside nel gestire una scuola e il dramma del “bullo” Julian, che Palacio svilupperà mostrando che sempre, nell’animo dell’uomo, c’è la possibilità di un riscatto se si è attenti a ciò che dentro di noi si muove di fronte ai volti e alle storie degli altri.
“Choose kind”: è questo il primo precetto che il signor Browne propone ai suoi studenti, e sulla gentilezza vi è molta insistenza nell’universo di Wonder. E se a prima vista può apparire un semplice richiamo o una lezione di fair play, nulla toglie al gusto di scoprire qual è il suo fondamento, cosa sia cioè ciò che consente di affacciarsi con rispetto sulla soglia dell’altro, accoglierlo ed amarlo così com’è. “Siamo tutti fatti di ciò che ci donano gli altri”, dice Todorov, “in primo luogo i nostri genitori e poi quelli che ci stanno accanto”. È in questo intreccio di storie che emerge il prodigio che è l’io di ognuno di noi.
E così, ancora una volta, è ricominciato gennaio: “Si chiude un anno e ne inizia uno nuovo”, dice il signor Browne: “un’opportunità per guardare avanti” e scoprire, aggiungo io, l’August Pullman che c’è in tutti noi, seguendo le tracce che gli incontri della vita lasciano nella terra delle nostre giornate e osservando, stupiti, lo svolgersi dei semi nascosti anche dentro le ore di lezione. È questo che, per il mio 2018 e per quello di tutti, desidero e mi auguro.