Partono le iscrizioni per le scuole superiori con il debutto dei nuovi professionali. E’ l’effetto del decreto legislativo 61/2017 sull’istruzione professionale, uno degli otto temi di innovazione previsti dalla Buona Scuola. Sotto Natale (il 21 dicembre) la Conferenza Stato-Regioni ha approvato lo schema di regolamento attuativo e in questi giorni si deve esprimere il Cspi. La macchina ministeriale avanza con il consueto fiato corto di chi ha ospiti a cena e deve ancora fare la spesa. Eppure si trattava di una questione importante: rilanciare l’istruzione professionale in un Paese che ha bisogno di tecnici e continua a sfornare liceali spesso orientati al conseguimento di lauree inutili.
La decisione di mettere mano a questo settore della nostra istruzione professionale, a soli sette anni dal riordino gelminiano, nasceva dalla consapevolezza che allora si sbagliò gravemente: poco spazio alle materie pratico-professionali, troppo schiacciamento sui profili dei tecnici. L’intervento di oggi è timido e deludente. Al di là dei roboanti proclami ministeriali, la “ciccia” è poca: 2/3 ore in più alla settimana di officine/laboratori professionali che passano da 3 ore settimanali (sic!) a 5/6 su un totale di 32. Veramente troppo poco per pensare che i professionali si caratterizzino come “scuole territoriali dell’innovazione, aperte e concepite come laboratori di ricerca, sperimentazione e innovazione didattica” (art. 1 del decreto 61).
Altri passaggi vengono invocati dal Miur come elementi che segnerebbero una svolta: la cosiddetta “personalizzazione” dei percorsi e l’aggregazione delle discipline per assi culturali. In effetti il D.Lgs. 61 prevede fino a 264 ore nel biennio per la personalizzazione degli apprendimenti. Ma nulla è dato di sapere ad oggi (e forse sperare) sulla possibilità reale di muovere risorse di personale (leggi organici docenti) per rispondere a queste esigenze di personalizzazione. E i segnali nello schema di regolamento vanno in direzione opposta, introducendo nuovi paletti all’uso delle cosiddette quote di autonomia che consentivano di modificare fino al 20 per cento dei curricoli con ricadute sull’organico docenti (cfr. art. 5 c. 3 del regolamento approvato dalla Conferenza Stato-Regioni). Inoltre l’aggregazione per assi culturali avrebbe senso se producesse delle effettive conseguenze di flessibilità nell’uso dei docenti a cui è affidata la gestione delle classi. Ma questo vorrebbe dire un sacrilego intervento su uno dei più intangibili principi sindacal-burocratici e cioè la relazione rigida tra graduatorie e insegnamenti.
In un contesto così fitto di problemi non sono poche le voci che si levano, segnatamente su fronti sindacali, per invocare il rinvio di un anno dell’intera partita. La cosa appare poco praticabile sul piano politico, a legislatura conclusa e con un Governo uscente che rivendica la conclusione dell’iter. Ma ha anche una grande contro-indicazione con riferimento al “convitato di pietra” di tutto questo disegno e cioè le Regioni. Il rinvio probabilmente significherebbe il prolungamento di un altro anno dello stato di dormiveglia per quelle Regioni che hanno accuratamente evitato di affrontare il tema; un tema che invece ha bisogno di sforzi regionali, complice la bocciatura referendaria della riforma costituzionale, per il ripensamento radicale dei sistemi di formazione professionale in raccordo con quelli di istruzione professionale statale. Ma muoversi su questo terreno vuol dire modificare assetti consolidati, correggere qualche errore di impostazione e soprattutto investire risorse.
Per questo oggi la partita più modesta, ma comunque delicata, si gioca sul piano dei regolamenti attuativi e delle misure di accompagnamento alla riforma. La strada maestra sarebbe quella del coraggio, dell’investimento sull’autonomia lasciando alle scuole la possibilità di agire con tutte le (poche) libertà possibili per interpretare ed attuare il testo del decreto 61. Il rischio opposto è quello della solita presunzione riformatrice, della definizione rigida che ingessa i processi, presumendo appunto che solo il pensiero illuminato centrale possa realizza il bene comune. L’aria che tira non rende troppo ottimisti.