Da un po’ di tempo mi capita, nelle discussioni sulla situazione mondiale e italiana, di sostenere, in modo provocatorio, che la democrazia è una forma di governo superata. Che, alla fine, la ricerca del consenso e della condivisione non consente di affrontare le questioni essenziali del vivere civile e di compiere quel balzo in avanti che sarebbe necessario, non soltanto al nostro Paese, ma al mondo intero.
Se osserviamo con sguardo disincantato la situazione che abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni, non possiamo non convenire sul fatto che ogni volta che si cerca di cambiare lo status quo, si assiste ad una levata di scudi della categoria toccata. Si tratti di tassisti, magistrati, commercianti o notai, solo per fare alcuni esempi, partono azioni dimostrative che si possono spingere fino al blocco del servizio pubblico, della mobilità in città o della normale attività con danni evidenti e continuati per tutti gli altri cittadini. Poi puntualmente, almeno in Italia, parte la marcia indietro delle istituzioni, la ricerca del dialogo, poi del compromesso, poi dell’annacquamento del provvedimento, fino alla sua naturale estinzione e al ripristino dello status quo. In questo modo, nessuna riforma davvero efficace prende mai piede e la situazione complessiva di stallo permane inalterata.
In uno scenario mondiale, ma soprattutto europeo, di stagnazione, sarebbe invece più che mai fondamentale superare le visioni di parte e fare qualcosa di diverso, superando il “particulare” di ciascuno in un ottica di bene collettivo. La democrazia nasce come forma di governo volta a tutelare gli interessi dei più, sovvertendo una tradizione incentrata sui privilegi del sangue, della casta o delle ricchezze. Tutto questo si concretizza oggi con la crisi politica che in tutta Europa ha colpito i partiti tradizionali. Nonostante le politiche liberiste dei partiti di destra abbiamo mostrato tutti i loro limiti, chi ha sofferto maggiormente sono i partiti schierati dall’altra parte.
Questo stato di cose è stato mirabilmente sintetizzato da Colin Crouch nel libro Postdemocrazia, nel quale descrive la storia della democrazia come un arco. All’inizio c’è stata una forte crescita, il coinvolgimento dei cittadini prima esclusi dalle decisioni chiave, l’aumento del benessere, la subordinazione dei mercati alle regole imposte dalla politica. Poi, a partire dal secondo dopoguerra, la parabola è entrata nella fase discendente. Partecipazione sempre minore alle elezioni e, soprattutto, le decisioni vere non si prendono nei luoghi deputati, ma altrove. Nei centri di potere. All’interno delle potenti lobby economiche che determinano le scelte fondamentali, senza godere di un vero ed esplicito consenso democratico.
“I governi – ha scritto recentemente Henry Farrell su Aeon Magazine – fanno sempre più affidamento sulle aziende, al punto che senza i loro consigli non saprebbero che cosa fare. Il concetto di responsabilità svanisce in un labirinto di appalti e subappalti… La sfera dell’autentica democrazia, quella in cui si compiono scelte politiche che rispondono alle esigenze degli elettori, si contrae ulteriormente“.
A conferma di questo stato di cose, basta osservare quanti ex manager di aziende vengono investiti di incarichi di governo in tutti i Paesi. Per altro, leggere queste parole conforta la mia voglia di provocazione, ma non mostra la via di uscita da una situazione obiettivamente pericolosa. La sensazione che il voto abbia perso di peso lo si ha anche considerando il fatto che spesso i governi prendono decisioni non tenendo conto dell’interesse della maggioranza, ma di scelte di marketing. In tutto questo i partiti non vogliono fare scelte impopolari e proporre ricette di cambiamento. Movimenti come Occupy Wall Street e gli Indignados hanno fatto esplodere la discussione su un tema fondamentale, quello della diseguaglianza. “Questo libro – scrive Joseph E. Stigliz in Il prezzo della diseguaglianza – tratta di eguaglianza ed equità, ma esiste un altro valore fondamentale che il nostro sistema sta apparentemente intaccando: il senso della correttezza, il gusto di giocare lealmente, rispettando le regole, che chiamiamo fair play“.
Di fronte alla difficile situazione economica mondiale, secondo Stigliz, anche il sistema politico si è rivelato fallimentare, incapace di svelare le menzogne delle grandi aziende (quelle, per esempio, dell’industria del tabacco sui danni del fumo o quelle di aziende come la Exxon sui danni al clima), ma anche di dare risposta alle esigenze della gente. Pensiamo, per restare nell’attualità, alla disoccupazione del 50% in Spagna, del 18% negli Stati Uniti, agli stratosferici compensi dei Ceo anche in tempi di crisi (243 volte lo stipendio di un lavoratore medio negli Usa), al fatto che in America nel periodo 2002-2007 l’1% della popolazione abbia realizzato più del 65% dei guadagni dell’intero reddito nazionale o al persistente aumento della differenza esistente tra i più ricchi e il resto della società.
“A distanza di anni – sostiene Stigliz – dall’esplosione della bolla, alla fine fu chiaro che, proprio come aveva fallito nell’impedire la crisi, il nostro sistema politico non era riuscito a controllare la crescita della diseguaglianza. Gli americani, gli europei e i cittadini delle altre democrazie del mondo sono molto orgogliosi delle loro istituzioni democratiche. Ma quelle proteste (gli Indignados e Occupy Wall Street, ndr) hanno messo in dubbio l’esistenza di una reale democrazia… Una vera democrazia è qualcosa di più del diritto di votare una volta ogni due o quattro anni. Le scelte devono essere significative. E i politici devono ascoltare le voci dei cittadini“.
Per fare questo serve un’inversione di rotta. Un ritorno alla passione per la politica da parte delle persone. Un ritorno all’etica e ai valori. La voglia di tornare a fare gli interessi della gente per avere una società meno divisa e una speranza per il nostro futuro.