LIPSIA — L’uscita, anche in Germania, delle Ultime conversazioni di Peter Seewald con papa Benedetto XVI e la rilettura (personale) del suo primo volume della trilogia su Gesù di Nazareth, permettono di incontrare ancora una volta un uomo sorprendentemente audace e libero, che con tutto se stesso invita a guardare Colui che ha già salvato il mondo con uno sguardo non “mistico”, ma che sorge da una grande intelligenza della fede.
Alla domanda chi siano i teologi da cui ha imparato di più, il papa emerito risponde con decisione: Henri de Lubac ed Hans Urs von Balthasar. A quest’ultimo lo ha legato una grande fratellanza teologica, sebbene lo sguardo mistico di von Balthasar, che ha permesso il sorgere della missione teologica comune tra il teologo svizzero e la mistica Adrienne von Speyr, i cui testi non dicono molto a Benedetto XVI, gli sia estraneo.
Perché un uomo audace? Ovviamente la sua scelta di lasciare la conduzione attiva del pontificato ha fatto vedere a tutto il mondo di cosa sia capace questo uomo “romano”, e al contempo “bavarese”. Audace è anche la sua lettura delle parabole evangeliche. Nel primo volume su Gesù ne commenta in modo particolare tre: quella del samaritano misericordioso (Lc 10, 25-37), quella dei due fratelli, quello prodigo e quello rimasto a casa (Lc 15, 11-32) e quella del ricco epulone e del povero Lazzaro (Lc 16,-31). Il commento del papa emerito conosce tutto l’essenziale del dibattito esegetico sui testi del Nuovo Testamento, conosce i limiti e la grandezza del commento “allegorico” dei Padri della Chiesa, che sa ricollegare ai grandi della filosofia, per esempio Karl Marx — basti citare il tema dell’estraneità dell’uomo dalla propria vera natura. Conosce infine una urgenza esistenziale e “storica” che spianano la via alla lettura dei testi evangelici a cui papa Francesco sta educando il popolo cristiano, in modo particolare nelle omelie di Santa Marta: nel modo della presenza occidentale in un continente come l’Africa, ma non solo, “abbiamo ferito la loro anima. Invece di dare loro Dio, il Dio che ci è vicino in Cristo, e così invece di ricevere e portare a compimento tutto ciò che vi è di prezioso e grande nelle loro proprie tradizioni, abbiamo portato loro il cinismo di un mondo senza Dio, in cui ciò che veramente conta è solo il potere e il profitto”. Stiamo leggendo il commento di Benedetto XVI nel primo volume di Gesù di Nazaret e non la Evangelii gaudium di Francesco.
Nei social media corrono voci che le “ultime conversazioni”, che contengono un giudizio positivo e discreto sul papa attuale, siano strane e rivelerebbero uno stile che non è quello di Benedetto XVI. Invero lo stile di Benedetto XVI è quello di un uomo libero da sempre, proprio come si può leggere nelle Conversazioni.
Anche libero di sollevare obiezioni alla verità del primo giudizio del suo vescovo, che voleva impedire che il giovane Joseph Ratzinger andasse ad insegnare all’Università di Bonn. Le obiezioni non nascevano da un prurito di libertà, ma da quella vera libertà che nasce dall’obbedienza alla propria missione ecclesiale e che forse il suo vescovo non comprese subito.
Un uomo che ama la libertà anche al cospetto di temi che gli urgono in modo particolare, come la liturgia. Con decisione dice a Peter Seewald che i problemi certamente molto grandi del degrado della liturgia oggi nella Chiesa non possono essere risolti con atto di autorità, neppure del pontefice, ma con un lavoro di convinzione (per esempio scrivendo un libro). Un uomo che, anche come papa, preferisce scrivere la trilogia di Gesù piuttosto che aumentare il numero delle proprie encicliche.
Ma per arrivare infine al fraintendimento più grave: si è pensato, anche forse per un’immagine di lui che Hans Küng ha venduto ai mass media, che il prefetto della fede, Joseph Ratzinger, abbia operato una svolta (come Hans Urs von Balthasar) dal programma di “abbattere i bastioni” ad una condanna di tutte le tendenze moderniste che si sono innestate nella ricezione del Concilio Vaticano II.
In realtà sia per il teologo svizzero che per quello bavarese vale che non hanno mai inteso l’abbattere i bastioni come un abbattere la Chiesa, ma come una necessità del suo essere “semper reformanda”. Se nel mondo teologico cattolico del ventesimo secolo si ha ancora un senso vivo del dogma della “extra ecclesiam nulla salus”, lo dobbiamo ad uomini liberi come De Lubac, von Balthasar e Ratzinger. Anche la recente affermazione di Benedetto XVI nella famosa intervista con Jacques Servais, che in riferimento alla salvezza degli uomini che non hanno ricevuto il battesimo c’è stata una “evoluzione del dogma”, non è da intendere nel senso di una “distruzione” o di un “superamento” del dogma. Come ha spiegato Servais in una recente intervista, la traduzione “Entwicklung” con “evoluzione” non è ottimale. In tedesco c’è per questa la parola “Evolution”, che però Benedetto XVI non ha usato. Nella parola “Entwicklung” c’è una dinamica che è la stessa della “semper reformanda”.
Si tratta di uno sguardo a Cristo, che certamente ha anche una dimensione di “dottrina”, ma che è e rimane lo sguardo a “Colui che è il sempre più grande”. Quel Colui che può essere seguito solo con un’obbedienza libera allo Spirito Santo, cui obbedisce anche papa Francesco, come ha sostenuto con grande decisione anche il cardinal Marc Ouellet in un recente libro uscito in francese, in cui risponde alle tante obiezioni che vengono fatte al papa attuale. Benedetto XVI a sua volta nelle sue ultime conversazioni chiude la discussione sensata sul tema con un chiaro “der Papst ist der Papst, ganz gleich wer es ist” (il Papa è il papa in modo del tutto indifferente da chi lo sia).