Gli esami non finiscono mai. Magari lo ricordiamo proprio in questi giorni, quando i nostri ragazzi sono alle prese con le loro prime prove scolastiche. Ma che tono assumiamo noi adulti quando citiamo Eduardo? Il tono baldanzoso di chi considera l’esame l’occasione perché un lavoro venga finalmente riconosciuto e apprezzato o il tono depresso-rassegnato-angosciato di chi si sente a disagio nell’essere “giudicato”? Strettamente legato ad esame è il concetto di sanzione, al quale le nostre orecchie tendono subito ad associare un sapore penale, dimenticando l’esistenza di un altro tipo di sanzione, quella premiale, per la quale viene imputato un merito.
Ogni nostro atto, per sua natura, vuole la sanzione. Anzitutto premiale. I nostri ragazzi lo sanno bene. Loro vogliono essere sanzionati per il loro lavoro, se all’atto non segue sanzione c’è disorientamento. E’ la sanzione che offre la possibilità di associare un altro al proprio atto e quindi di portarlo a compimento. I nostri ragazzi non solo lo sanno bene, ma lo chiedono in ogni modo; ho a volte incontrato ragazzi “terribili” che attendevano solo di essere fermati, di essere giudicati da un maggiore competente che ponesse fine a un fare improduttivo.
E’ facile che al lemma esame si associ paura, angoscia, preoccupazione. In un certo senso è naturale, perché ne vediamo l’aspetto puramente valutativo nella sua funzione di possibile barriera/ostacolo: l’altro è lì per cogliermi in fallo e se va male c’è un blocco, uno stop. E’ invece di tutt’altro tipo lo sguardo che riesce ad associare al concetto di esame affetti come desiderio, entusiasmo, soddisfazione. Il desiderio che il mio studio abbia un esito, l’entusiasmo di poter sostenere una tesi davanti a un professore, la voglia di mostrare il mio lavoro, la soddisfazione finale che coincide con la promozione e il bel voto, ma non si esaurisce lì. L’altro che mi giudica, ossia che mi sanziona, non è più qualcuno che vuole ostacolarmi, ma un compagno grazie al quale il mio lavoro, in questo caso di studio e preparazione, arriva al suo esito.
Aiutiamo allora i ragazzi a non temere il giudizio. Il concetto stesso di correzione si spinge in questa direzione. Flannery O’Connor in una delle sue lezioni affermava: «Non so cosa sia peggio: avere un cattivo insegnante o non averne affatto. Ad ogni modo, credo che il compito dell’insegnante debba essere in gran parte negativo. L’insegnante può tentare di estirpare quanto è decisamente brutto, e dovrebbe essere questo lo scopo del tempo passato al college». Se la correzione diventa l’estirpazione di quanto decisamente brutto allora vuol dire che l’intervento farà fiorire ciò che il ragazzo ha prodotto: un testo scorrerà meglio e comunicherà più efficacemente il pensiero, una pagina di conti e numeri rispetterà finalmente la sua logica. La correzione riuscita non mortifica mai, la correzione riuscita potenzia ed esalta.
Di fronte agli esami dei nostri ragazzi noi adulti abbiamo un compito, sia che occupiamo il posto di insegnante sia di genitore.
Insegnante: non mancare all’appuntamento. L’esame è solo una forma particolare del regime dell’appuntamento che costituisce il rapporto a scuola. Essere puntuali al mattino, portare il materiale corretto, svolgere i compiti assegnati, approfondire il concetto spiegato in classe sono tutte modalità per rispondere ad un appuntamento dato, non imperativi moralistici di un ordine astratto. Non studio solo per me, ma perché mi hai invitato tu, perché rispondo alla tua proposta.
Un voto più che sufficiente, una stretta di mano, il “bravo!” detto con sincerità sono tutti atti che permettono allo studente di concludere il moto del suo studio. E dove conclusione lì soddisfazione. Il brutto voto, invece, fino alla bocciatura, non rappresenta altro che la sanzione a un lavoro mancato, nulla di più. A suo modo conclude ugualmente. La stessa sanzione penale sarà efficace se aprirà a pensieri nuovi, se non genererà sconforto, ma questioni, se non mortificherà, ma conterrà in sé, magari in nuce, la proposta di una soluzione.
Genitori: sostenere, supportare e incoraggiare. La riuscita scolastica per il ragazzo dipende dalla riuscita del pensiero. La riuscita però è iniziale, già prima della scuola: il bambino, anche piccolo, che sta bene è un individuo che si muove per concludere, che cerca il rapporto perché esso rappresenta l’unico mezzo per concludere, per stare bene. Noi grandi dobbiamo solo custodire questa salute iniziale; il pensiero del bambino non vede sviluppo, piuttosto storia. Allora non carichiamo la scuola e l’esame di significati non propri, non facciamoli diventare unità di misura da cui dedurre la riuscita futura del soggetto. Un adulto dovrebbe avere sufficiente esperienza per sapere che la riuscita scolastica è solo una delle possibili forme di riuscita nella vita e che la corrispondenza fra insuccesso scolastico e insuccesso esistenziale è maligna, oltre che falsa. Incoraggiamo piuttosto il pensiero dei ragazzi nel cercare la soddisfazione anche nella prova, evitando di generare angosce da prestazione, per loro natura inibenti e malevoli. I ragazzi non devono dimostrare di essere all’altezza di un ideale che abbiamo noi o che magari hanno già costruito loro stessi, è bene che piuttosto colgano l’occasione per sperimentare che ogni atto porta le sue conseguenze, che se lavoro allora frutto. Cosicché, se il lavoro non è stato fatto, sia possibile accedere al pensiero che già prima era e resterà a portata di mano, solamente in attesa della libera iniziativa.
E poi sosteniamoli, i ragazzi, qualora i grandi che incontreranno all’esame non siano loro all’altezza del compito, se mancheranno all’appuntamento e faranno scontare la pena di essere diventati annoiati burocrati resi cinici dalla vita. Sosteniamo i ragazzi perché non ne derivi loro uno scoraggiamento sugli adulti tutti, un giudizio negativo globale a partire da chi ha rinnegato e tradito la domanda del loro cuore nel momento in cui erano più vulnerabili. Domanda di rapporto, di compiutezza, in ultima analisi di soddisfazione. Perché il successo prima di essere sostantivo è participio: è successo, ossia è accaduto. Che accada qualcosa, questo l’augurio di fronte a un esame. Un accadere nella dinamica del rapporto che mi fa riscoprire me stesso attraverso un altro degno di occupare temporaneamente il posto di mio altro.