La naturale esperienza ci dice che la raffigurazione della realtà fisica dovrebbe implicare l’adozione di un sistema di riferimento tridimensionale: in essa i tre assi individuano le coordinate attraverso cui identificare le posizioni dei corpi nello spazio. Seguendo la lezione di Einstein, a queste tre dimensioni bisogna aggiungerne una quarta, il tempo. In questo sistema di riferimento – lo spaziotempo – i punti fermi nello spazio tracciano linee, quelli in movimento traiettorie più complesse.
La visione einsteniana è un ampliamento formidabile e insuperato della meccanica classica e riunisce ciò che fino al suo contributo sembrava irrimediabilmente separato: la meccanica dei corpi e i fenomeni elettromagnetici. Ma nel suo approccio è fisica newtoniana, postula cioè la continuità dello spazio e del tempo, ovvero la sua divisibilità in parti sempre più piccole, senza elementi indivisibili alla base.
Un altro punto di vista altrettanto importante per la fisica moderna è quello di Planck, secondo il quale la realtà è costituita da elementi di energia “di base” – i quanti -, ai quali corrispondono elementi base di spazio (circa 1,6 x 10-35 m) e di tempo (5,39 x 10-44 sec). A livello di questi microscopici tempi e spazi, la fisica è governata da leggi differenti rispetto a quelle della meccanica classica e ad essa irriducibili. La visione einsteniana della relatività e quella planckiana della quantizzazione della realtà rappresentano le colonne d’ercole della raffigurazione del reale che la moderna fisica ha offerto al mondo.
Proprio partendo da questi spunti e andando a considerare le caratteristiche della realtà a livello subnucleare, un gruppo del Fermilab di Chicago ha elaborato un’ipotesi quanto meno originale di come la realtà a livello planckiano potrebbe scardinare la nostra abituale visione della realtà. E proprio per un effetto dovuto alla relatività. In sostanza il gruppo di fisici diretti da Craig Hogan ha ipotizzato che a livello dello spazio di Planck le dimensioni fisiche necessarie siano solo due, e non le solite tre, mentre la terza sia un effetto di uno “sfasamento” a livello della più piccola unità spaziotemporale. In pratica l’indeterminazione sulla posizione in due istanti successivi di una particella farebbe “nascere” una terza dimensione virtuale per un effetto quantistico. L’universo tridimensionale sarebbe un ologramma delle particelle nello spazio di Planck.
L’idea pare ai limiti della follia, ma il gruppo del Fermilab è convinto che l’ipotesi sia verificabile o falsificabile grazie a un esperimento. La “prova” ipotizzata e in via di realizzazione prende le mosse da uno dei più importanti esperimenti della storia della fisica, è cioè l’esperimento di interferometria di Michelson e Morley, che era nato con lo scopo di misurare la velocità della luce.
L’interferometro olografico – o “olometro”: questo è il nome dello strumento – è costituito da due interferometri completamente separati posizionati uno sopra l’altro. In ogni interferometro, un fascio di luce viene separato in due parti che viaggiano lungo direzioni differenti, fino a raggiungere uno specchio che le rimanda indietro, dove viene misurata l’eventuale differenza di fase. Qualsiasi minuscola vibrazione che interferirà con la frequenza della luce nel corso del suo viaggio determinerà quindi un’uscita dallo stato di sincronizzazione dei due interferometri. Gli interferometri di questo "olometro" sono caratterizzati da una elevatissima precisione alle alte frequenza.
I ricercatori prevedono una maggiore precisione di sette ordini di grandezza rispetto a qualsiasi orologio atomico attualmente esistente su intervalli di tempo ultrabrevi. Disponendo di due interferometri, i ricercatori possono confrontare i risultati per confermare le misurazioni. Inoltre, possono assicurarsi che qualsiasi vibrazione rilevata non sia derivata dall’interferometro olografico stesso. Infine una serie di sensori all’esterno dell’apparecchiatura servirà per rilevare le normali vibrazioni e cancellarle facendo vibrare alla stessa frequenza gli specchi. L’esperimento vedrà due step: un primo per la realizzazione di uno strumento più piccolo (1 metro di lunghezza), un secondo per un esperimento assi più grande e preciso (40 metri di lunghezza).
Da un lato bisogna riconoscere al gruppo del Fermilab una originalità tutta sua. Normalmente infatti i fisici teorici negli ultimi decenni si sono divertiti ad aggiungere dimensioni piuttosto che a toglierne, arrivando a ipotizzare che le dimensioni del mondo in realtà siano almeno undici. Dall’altro è impossibile non notare come il punto di partenza tradisca in qualche modo una strana attrazione per le spiegazioni forzatamente esotiche dei fenomeni naturali. Sembrerebbe quasi che per conoscere la realtà si debba per forza pensare che in essa ci sia qualcosa che non va, che il suo apparire sia “sbagliato”. Questa scelta non ha certo un fondamento scientifico, ma sta al fondo dello sguardo di chi ricerca.