Nel suo articolo sul Sole 24 Ore di domenica 22 maggio 2016, “Preservare il latino è ripensarlo“, Luca Serianni, riproponendo il suo intervento al convegno del Politecnico di Milano sul liceo classico tenutosi lo scorso aprile (sul quale è intervenuto Marco Ricucci sul sussidiario), se la prende fra l’altro con la prova di versione e con il “soverchiante apparato grammaticalistico” che nella scuola si accompagnerebbe alla lettura dei testi, ribaltando il rapporto corretto fra questi ultimi e la grammatica.
Se davvero così fosse, non si potrebbe che deprecare. A mio avviso però così non è, almeno non da parte di numerosi bravi insegnanti di cui la scuola italiana — e il liceo classico in particolare — può valersi, diversi dei quali mi confermano che la “lettura lenta” dei testi cui il prof. Serianni invita è oggetto del loro lavoro quotidiano e che il grammaticalismo che si rimprovera all’insegnamento liceale delle lingue classiche è oggi un difetto tutt’altro che diffuso, incomparabilmente meno diffuso del suo opposto: esso — forse — può essere ascritto a qualche cattivo docente, che ripropone ogni anno senza passione la grammatichetta che a suo tempo ha imparato a scuola, oppure a qualcuno che, conoscendo assai superficialmente le lingue classiche, maschera la propria incompetenza ossessionando gli allievi con regoline e regolette insulse imparate al momento sui libri, e magari non vede l’ora di rinunziare del tutto ad insegnare ciò che non conosce, cercando qualche via per fare un greco e un latino più facile.
C’è un’insidia pericolosa nella taccia di -ismi assegnata fin troppo volentieri, nel recente dibattito sulla didattica delle lingue classiche, ad alcune discipline (me lo ha fatto notare un’amica insegnante di inglese in un liceo classico lombardo): quello di sostituire, nella nostra percezione, l’-ismo alla definizione positiva. Non più grammatica, ma grammaticalismo, non più filologia, ma filologismo: la grammatica e la filologia diventano, in questo modo, qualcosa da evitare, di cui quasi vergognarsi. Certo, ogni positivo può conoscere una degenerazione: esistono, eccome, il tecnicismo, lo scientismo, lo psicologismo, l’antropologismo, ma guai se cancellassero dalla nostra considerazione positiva la tecnica, la scienza, la psicologia, l’antropologia.
Proviamo dunque a mettere da parte per un momento lo spettro del grammaticalismo per interrogarci sulla funzione della grammatica, quella sana, al liceo. Serianni, molto meglio di me, sarebbe in grado di tesserne l’elogio. Che cos’è la grammatica, al di là delle definizioni da vocabolario? E’ la riflessione strutturata su una lingua antica o moderna, l’individuazione di costanti nelle attestazioni che noi ne possediamo, l’elaborazione di “modelli” (quelli che noi chiamiamo “regole”) che permettono di descrivere in forma sintetica fatti e fenomeni presenti nella lingua.
Senza la grammatica, per “descrivere” il genitivo singolare latino non avremmo alternativa all’elenco nudo e crudo di tutte le forme di genitivo che incontriamo nei testi, letterari e non: ricordarle tutte sarebbe impossibile, o almeno oltremodo dispendioso, anche per Pico della Mirandola, ma soprattutto sarebbe assai frustrante, perché la mente umana soffre dell’ammasso farraginoso di dati, mentre “gioisce” nel conoscere in maniera “semplice” una parte il più possibile ampia della realtà. L’elaborazione dei modelli grammaticali, dunque, è un processo identico, sul piano metodologico, all’elaborazione dei modelli matematici, fisici, economici. E’ un processo che si applica a posteriori, non a priori, ai dati di una lingua: sulla base dei testi, che vengono prima, individua le “regole” (in questo ha ragione Serianni: la grammatica “serve” i testi, non viceversa).
La grammatica che si impara a scuola è il frutto di questo lavoro. E’ una scienza, e come tale dovrebbe essere fatta percepire a chi la studia. Né è impossibile farlo, al liceo, se un professore la possiede in modo sicuro. Più la si possiede, più si è in grado di semplificarla senza banalizzarla, ma soprattutto più si è in grado di renderla avvincente, di “farla parlare”: una lingua infatti è l’espressione del popolo che se ne vale, non solo perché molto (non tutto, certo) di ciò che caratterizza quel popolo ci è noto attraverso il veicolo della lingua, ma perché l’uso di certe strutture anziché di altre è testimonianza insostituibile della mentalità di quel popolo.
E’ ingenuo pensare che si possa studiare a fondo una civiltà prescindendo dalla conoscenza della sua lingua. Si potrà essere in grado di capire ciò che altri (quelli che sanno la lingua!) ci raccontano di quella civiltà, ma non si sarà mai autonomi nel verificare la fondatezza di quei racconti. Per questo non si può studiare il mondo antico in maniera consapevole e critica senza conoscerne a fondo la lingua, la quale è fatta di parole, ma anche di strutture, cioè di grammatica. La quale non si può conoscere così così: o la si conosce o non la si conosce (mi perdoni Luca Serianni se oso definire quantomeno bizzarra la sua proposta della riduzione dello studio delle declinazioni latine alle prime tre…).
Ecco perché si dice che il greco e il latino insegnano a pensare: non perché siano lingue più “logiche” delle altre (questa è un’affermazione priva di senso), ma perché studiarle implica — più ancora che per le lingue vive — una riflessione grammaticale nel senso sopra indicato. Accrescere le capacità logiche non è l’obiettivo proprio dello studio del greco e del latino, ma se ne diventa un portato inevitabile, un valore aggiunto, perché strapparsi le vesti, come qualcuno ha fatto al convegno milanese?
Ogni disciplina che implica un’applicazione rigorosa e sistematica insegna a pensare. Così lo studente non solo acquisisce uno strumento utile nell’ambito di studi che direttamente gli interessa, ma diventa capace di applicare la sua intelligenza in contesti diversi. Una buona scuola dunque — e il liceo in particolare — dovrebbe privilegiare queste discipline, lasciare che lo studente scelga l’una o l’altra in relazione alle proprie attitudini, ma mai ridurne l’importanza.
Uno dei maestri della linguistica storica del nostro secolo, Romano Lazzeroni, parlando di ciò che la scuola e l’università dovrebbero insegnare, mi ha messo a parte di un simpatico episodio: una bambina di 11 anni gli confidò un giorno di annoiarsi a scuola, “perché mi insegnano le cose che sono scritte nei libri. Ma quelle si imparano dai libri. Io vorrei che mi insegnassero come fanno a saperle quelli che scrivono i libri”. E’ proprio così: se vogliamo che i nostri giovani si accostino alla cultura classica in maniera consapevole e con senso critico non dobbiamo solo raccontare loro le belle e interessanti acquisizioni che noi abbiamo fatto, ma fornire loro strumenti rigorosi, anche se impegnativi, perché possano arrivarci da sé, o almeno verificarne la fondatezza. Così la conoscenza darà loro libertà.
Vorrei dunque fare una proposta: nel dibattito sulla didattica del greco e del latino rinunziamo una buona volta all’opposizione insensata tra grammatica e civiltà. Non riduciamo il peso della lingua, pensando così di recuperare tempo e spazio per la civiltà, ma lavoriamo perché la didattica della lingua, della grammatica, divenga realmente funzionale alla conoscenza della civiltà. Non cancelliamo la prova di traduzione, non la integriamo con verifiche d’altro genere che ne ridurrebbero inevitabilmente il peso specifico, ma piuttosto prepariamo gli insegnanti, sin dall’università, perché siano conoscitori rigorosi e consapevoli della lingua. Non diciamo più che gli studenti non si interessano alla grammatica (non è vero!), ma educhiamoli sin da piccoli, sin dalla scuola primaria, a “guardare dentro” la lingua, a considerare quest’ultima una testimonianza della mentalità, della civiltà. Recuperiamo, magari attraverso forme didattiche nuove, lo studio della grammatica nelle scuole di ogni ordine e grado. Facciamo grammatica, non grammaticalismo.