Di appelli il dibattito culturale nostrano abbonda ormai da anni. Uno più o uno meno fa poca differenza. Tutti sembrano egualmente destinati a finire in nient’altro che strascichi di discussione sui giornali, diradantisi nel giro di poche settimane. E sì che ve ne sono alcuni i quali, al di là della forma un po’ ripetitiva in cui vengono proposti, sanno per lo meno centrare tematiche veramente di interesse comune, se non addirittura, per usare una terminologia che pare d’altri tempi, di “interesse nazionale”.
Tra questi vi è senza dubbio l’appello dei 600 docenti universitari, promosso da quel Gruppo di Firenze che ambiziosamente si propone di favorire “la scuola del merito e della responsabilità”. Obiettivo: richiamare l’attenzione della nazione su un’emergenza quale la caduta in disgrazia della lingua italiana. I giovani studenti arrivano all’università, sostengono gli estensori dell’appello, e ancora commettono errori da terza elementare. Ma non è un problema solo di “grammatica”: il fatto è che i giovani — dicono — non sono proprio capaci di esprimere in maniera appropriata il proprio pensiero.
Inutile girarci intorno: le cose stanno esattamente in questi termini. E la scuola è naturalmente la prima responsabile di questa situazione. Non per nulla gli appellanti puntano il dito contro il “governo del sistema scolastico”, che “non reagisce in modo appropriato” all’emergenza.
Al di là delle proposte di soluzione, tutte sostanzialmente condivisibili — revisione delle indicazioni nazionali per dare maggior rilievo alle competenze di base; verifiche nazionali periodiche; coinvolgimento dei docenti degli ordini superiori per le verifiche in uscita — il problema di fondo risiede in quell’appello indistinto rivolto al “governo del sistema scolastico”, inteso come sorta di elemento immutabile e superiore da cui dipendono i destini delle scuole del Regno.
Finché c’è una mente centrale che decide per tutti, e governa da lontano l’istruzione su tutto il suolo nazionale, possiamo starne certi: non ci sono verifiche e revisioni che tengano. Il problema oggi è forse che nei programmi nazionali si dice che è lecito per gli studenti italiani arrivare all’università commettendo errori grammaticali da terza elementare? No: il problema è che il governo del sistema semplicemente non governa. Desse anche le indicazioni più giuste e corrette, non sarebbe poi in grado di attuarle.
Si potrà forse dire che, in questi termini, il ragionamento rischia di piegare verso una china ormai nota: scaricare le responsabilità su un sistema che non funziona, e dire che nessun cambiamento parziale ha senso finché non si va all’origine ultima del problema. Non è così. Si mettano pure in pratica tutte le soluzioni proposte dall’appello, che — ripetiamo — sono più che condivisibili. Ma al tempo stesso, se proprio non si vuole cadere nell’annoso difetto dei “benaltristi”, si eviti perlomeno di chiamare in causa quel governo centrale del sistema scolastico, legittimandone l’esistenza nei termini in cui oggi è concepito, e senza nemmeno cercare di minarne almeno un poco le fondamenta.
Perché il problema sta tutto lì, e basta buttare lo sguardo oltre confine e cercare gli esempi migliori di sistemi scolastici a livello internazionale per rendersene conto. O le scuole diventano entità autonome, forti, responsabili, valutate, preferibili, o altrimenti è inutile aspettarsi che il palazzone di Viale Trastevere faccia piovere la soluzione delle soluzioni. Certo, c’è ancora chi, come Ernesto Galli della Loggia sulle colonne del Corriere della Sera, torna a vagheggiare di tanto in tanto una scuola nazionale unica e forte, capace di forgiare le classi dirigenti secondo le nobili intenzioni che erano nella mente del glorioso Giovanni Gentile. E pur sapendo che la cesura creata dalla nascita della scuola di massa ha radicalmente modificato quel progetto educativo nazionale — sempre ammesso che fosse condivisibile — si continua ciò nondimeno a pensare come sia possibile tornare, con vesti nuove, a quel modello.
Invece no: le scuole non insegneranno mai nulla, se non torneranno ad essere vere e proprie comunità, in cui professori che si sentano autenticamente parti di un “corpo docente” condividano un progetto culturale, educativo, e rischino la faccia sul quel progetto, chiedendo responsabilmente di essere valutati, di essere scelti per le loro capacità, per la loro passione, per gli obiettivi che sanno raggiungere. All’indomani della riforma Gentile, i docenti della nazione italiana si sentivano forse un’unica realtà, con valori universalmente condivisi, e con obiettivi che si potevano ritenere unici su tutto il territorio nazionale. Nessuno lo mette in dubbio. Ma oggi, inutile negarlo, non è più così.
Oggi, in un contesto tanto variegato e complesso, sono solo le singole scuole che possono essere concepite come comunità, con un progetto e un indirizzo comune (forse è sempre stato così, ma non impantaniamoci su questo aspetto). Ed è solo in un contesto del genere che si può tornare ad insegnare come si deve. Perché, non nascondiamocelo, il problema non è solo l’insegnamento della lingua italiana, ma il decadimento generale dell’insegnamento, con poca differenza tra l’italiano, la matematica, la storia o le scienze, così come hanno sostenuto anche alcuni sottoscrittori dell’appello in questione.
Si definiscano in maniera chiara e univoca gli obiettivi a livello nazionale: ci vuol poco, e non ci si deve discostare poi così tanto dalle direttive di oggi. Si costruisca al tempo stesso un sistema di valutazione unitario, indipendente e autorevole. Subito dopo, però, si mettano le scuole in condizione di camminare sulle proprie gambe, anche dal punto di vista finanziario, e di decidere in maniera totalmente autonoma come impostare le lezioni, gli orari, i giorni in cui andare a scuola, quali insegnanti assumere, come stipendiarli, e via discorrendo.
Inutile elencare i difetti delle scuole di oggi: ogni scuola, saputi gli obiettivi nazionali che deve raggiungere, faccia quel che vuole, e si vedrà se funziona meglio la scuola che punta tutto sul pedagogismo contemporaneo, o invece quella in cui si imparano a memoria le poesie e si fanno esercizi di retorica e di stile.
Questo, ad avviso di chi scrive, è il metodo da perseguire, e che può cambiare realmente la situazione, anche per l’insegnamento della lingua italiana. A patto, però, che quanto detto non si tramuti in materia per l’ennesimo appello con elenco di firme in calce…