«Sommo Iddio! quando tu miri una sera di primavera ti compiaci forse della tua creazione? tu mi hai versato per consolarmi una fonte inesausta di piacere, ed io l’ho guardata sovente con indifferenza».
Prima di leggere questa esclamazione di Jacopo Ortis, credevo di sapere cosa fosse «una sera di primavera». E invece mi ritrovo a rodere di invidia, a volergli rubare gli occhi, per sconfiggere la scontatezza del mio sguardo. Quella sera di metà maggio, pur sommerso dai suoi problemi, Jacopo finalmente si accorse che Dio lo stava aspettando, che non si era stancato di regalargli ancora una sorgente di consolazione. Di solito era tanto assorto nei suoi pensieri da non avere più occhi.
«Jer sera appunto dopo più di due ore d’estatica contemplazione d’una bella sera di Maggio»… e chi si è mai fermato, «più di due ore», a contemplare «una bella sera di Maggio»? «Scintillavano tutte le stelle, e mentr’io salutava ad una ad una le costellazioni, la mia mente contraeva un so che di celeste, ed il mio cuore s’innalzava come se aspirasse ad una regione più sublime assai della terra».
Guardare le stelle rapisce oltre. Ma proprio mentre intuisce un richiamo ineffabile, Jacopo sente suonare «la campana de’ morti». Allora sposta lo sguardo dalle stelle al cimitero, che sembra proclamare: «Abbiate pace, o nude reliquie: la materia è tornata alla materia; nulla scema, nulla cresce, nulla si perde quaggiù; tutto si trasforma e si riproduce – umana sorte!». Uno dopo l’altro, nella lettera del 13 maggio, lo slancio verso «un so che di celeste» cede alla più fredda sentenza del materialismo. Altro che un cuore anelante all’immenso! non sarà che, alla resa dei conti, siamo solo una squallida aggregazione di atomi?
La sera successiva però Teresa si avvicina a Jacopo: «mi parve ch’essa mi stringesse la mano, e io mi sentiva il cuore che non voleva starmi più in petto». Se lei gli è affianco, cosa arriva ad affermare questo lucido materialista? «Tutto è amore, diss’io; l’universo non è che amore». E quando Teresa gli confessa di amarlo: «a queste parole tutto ciò che io vedeva mi sembrava un riso dell’universo: io mirava con occhi di riconoscenza il cielo, e mi parea ch’egli si spalancasse per accoglierci».
Come può la medesima persona che pensa che tutto sia materia sentire che «tutto è amore»? La natura non rideva incurante di noi? Da dove salta fuori questo amore che ci sorride e vorrebbe abbracciarci? Forse il conflitto romantico fra ragione e cuore significa, più al fondo, la differenza fra un pensiero che gira in astratto, in assenza di un rapporto, e un pensiero che nasce dentro un rapporto.
Infatti, quando Jacopo decide di abbandonare Teresa per dar retta alla ragione anziché al cuore, è subito costretto a contraddirsi: «all’apparir del suo volto ritornano le illusioni, e l’anima mia si trasforma».
Prima di ogni idea sul mondo, «all’apparir del suo volto» il cuore avverte un contraccolpo: è in quel momento che «s’imparadisa nella contemplazione della bellezza». Ecco cosa manca a una «ragione fredda, calcolatrice»: il volto di Teresa. Quando perdiamo di vista un punto attraente, non riusciamo a guardare più niente: per chi, del resto, varrebbe la pena, a quel punto, aprire gli occhi? E così finiamo per blaterare che il cuore è una maledizione, che ci illudiamo inutilmente, perché alla fine non troveremo mai la felicità che desideriamo, tant’è che si muore. Ma tutte queste perle di saggezza possiamo permettercele soltanto in astratto: davanti alla persona che amiamo, non ce la facciamo a sentire che questa è davvero la verità razionale della vita. Ci sono occhi che impediscono alla ragione di girare a vuoto: fosse per quel che pensiamo, saremmo tranquilli nei nostri punti di vista, ma quell’amore riformula il pensiero.
Dentro il suo scintillare accade che le nostre «idee sono più alte e ridenti», il nostro «aspetto più gajo», il nostro «cuore più compassionevole». Non si tratta di un’oasi nel deserto, ma di un fuoco che riaccende la notte, di una dilatazione contagiosa: «Mi pare che tutto s’abbellisca a’ miei sguardi; il lamentar degli augelli, e il bisbiglio de’ zefiri fra le frondi son oggi più soavi che mai; le piante si fecondano, e i fiori si colorano sotto a’ miei piedi; non fuggo più gli uomini, e tutta la Natura mi sembra mia». «Sdrajato su la riva del lago de’ cinque fonti», Ortis immagina perfino «le Ninfe ignude, saltanti, inghirlandate di rose», e vede sbucare «con le chiome stillanti sparse su le spalle rugiadose, e con gli occhi ridenti le Najadi, amabili custodi delle fontane».
Esagerato, Foscolo! È troppo vertiginoso seguire il fascino delle cose fino al punto di non controllare più il gioco! Pur di riprendere in mano il pallino, preferiamo abbandonare la scia dell’immenso fenomeno che ci tuffa in mare aperto e introdurre un preconcetto, figlio dei nostri piccoli pensieri. Alla mentalità del suo – e del nostro – tempo basta una parola, terribile, per bombardare questa incontrollabile scoperta: «Illusioni! grida il filosofo». Non è Foscolo a chiamarle così, ma «il filosofo» – la mentalità corrente – a bollarle in tal modo, squalificandole dal recinto della ragione. «Capire tu non puoi, tu chiamale se vuoi…» «illusioni! ma intanto senza di esse io non sentirei la vita che nel dolore, o (che mi spaventa ancor più) nella rigida e nojosa indolenza». Prova a togliere la bellezza, la poesia, la pietà, quegli ideali sterminati a cui un cielo stellato o un volto ci spingono: cosa rimane, tranne una noia inutile?
Il sospetto, ciononostante, si affaccia devastante: «all’apparir del vero» non scopriremo forse che «quanto è così immaginato da noi si riduce inevitabilmente a sogno che si dilegua»? A un certo punto se ne convinse anche Ortis: «O illusione! perché quando ne’ miei sogni quest’anima è un paradiso, e Teresa è al mio fianco, e mi sento sospirar su la bocca, e – perché mi trovo poi un vuoto, un vuoto di tomba?». Al culmine iniziale della passione, Teresa era il motivo per cui vivere, fino a occupare l’intero orizzonte e a eclissare le stelle e Dio: «Dio mi diventa incomprensibile; e Teresa mi sta sempre davanti». Ma alla lunga scompare anche lei, e rimangono macerie: «tu mi hai presentata la felicità», grida a Dio, «ma dopo mille speranze ho perduto tutto!». Nell’ultima lettera prima di suicidarsi, tuttavia, Jacopo non poté scacciare il riaccendersi di quella «beata sera! come tu sei stampata nel mio petto!». Se ne ricorda la data: «era la sera de’ 13 Maggio», e «non è passato momento ch’io non mi sia confortato con la ricordanza di quella sera». Per lui, però, era stato un istante evanescente: «Ahi lampo! tu rompi le tenebre, splendi, passi ed accresci il terrore e l’oscurità».
Anche a Leopardi era accaduto un «maggio odoroso»: quello di Silvia. Che però lo tradì anch’esso, quando «all’apparir del vero / tu, misera, cadesti». Maledetto maggio, «quante rose a nascondere un abisso» (Saba)! Come ci inganna, ammantandosi di promesse, irrompendo come il primo sorso dell’eterno, mentre poi si lascia spremere una goccia troppo misera per tutta la sete che ci brucia! Una cosa è certa, però: quel maggio non se ne andava, né per Jacopo né per Leopardi. Tornava, si ostinava a infilarsi fra i pensieri più neri, fra i sistemi più ragionati: «io sto col piè nella fossa; eppure tu anche in questo frangente ritorni».
Boccaccio ci racconta che fu «il primo dì di maggio» che accadde per Dante il momento che non se ne andò più: la donna che «tanto gentile e tanto onesta pare», l’apparir, appunto, di Beatrice, fu il «miracolo». Non un lampo, ma il «lume tra ’l vero e l’intelletto». Dante non si sentì riempito provvisoriamente di belle menzogne, ma fu chiamato a diventare certo, una volta per tutte, della bellezza per cui era venuto al mondo. L’imparadisarsi foscoliano lì successe e durò: perfino Dio gli divenne comprensibile, proprio perché Beatrice gli rimase (quasi) sempre davanti; Dio gli presentò la felicità e Dante non la perse più. Eppure anche a lui capitò come a Jacopo, perché Beatrice come Teresa sposò un altro; e come a Leopardi, perché Beatrice come Silvia morì presto. Ma Dante non si sentì mai tradito da quella promessa. O forse non la tradì mai, continuò ad andarle dietro.
E noi, tramortiti da secoli di dubbi, facili a cedere quando le cose non vanno come ce le abbiamo in mente, poco inclini a giocarci le promesse dentro le delusioni, come siamo sfidati a riscoprire una «mente innamorata», a smettere di pensare al mondo senza il lume di un rapporto! Con che faccia potrei dire a mio figlio, nel suo terzo compleanno di maggio, che deve finirla di desiderare, che lo vedrà che la vita è una fregatura, che la promessa che tutto gli suscita alla fine non si compie? Se mi metto a pensare alla vita, potrei anche trovarmi d’accordo. Ma se lo guardo diventa solare che non mi illudo affatto a promettergli che la felicità non si perde più: perché l’«apparir del suo volto» è l’«apparir del vero».